America-Cina: non è più una guerra commerciale

Giulia Pompili

Pechino ci ruba le tecnologie perché un giorno potrà usarle contro di noi (si chiama deterrenza). La Casa Bianca di Biden cerca di isolarla

Quella dell’Amministrazione Biden contro la Cina non è soltanto una guerra commerciale. E’  una guerra preventiva per fermare una grande potenza competitiva, che sta diventando sempre più influente e autoritaria, prima che riesca nel suo obiettivo, quello di ottenere una posizione di dominio globale e sovvertire l’ordine del mondo come lo abbiamo conosciuto fino a oggi. E’ la fine del periodo post Guerra fredda, come è stato definito nel documento di Sicurezza nazionale della Casa Bianca. Per diventare la potenza che è oggi, la Repubblica popolare cinese, soprattutto negli ultimi dieci anni sotto la leadership di Xi Jinping, ha usato il sistema di trasparenza, cooperazione e globalizzazione internazionale a suo vantaggio, per un più ampio disegno di sviluppo interno.


 La questione riguarda soprattutto la tecnologia e, in particolare, la tecnologia di Difesa. Lunedì scorso il Washington Post ha pubblicato un’inchiesta nella quale si mostra come, nonostante le sanzioni e i divieti posti sia dall’Amministrazione Trump sia da quella Biden per il controllo delle esportazioni considerate strategiche, la Cina riesca ad acquisire tecnologie militari all’avanguardia utili per il programma missilistico e ipersonico cinese. E le aziende americane, per sviluppare quelle tecnologie, spesso hanno ricevuto sovvenzioni statali o contratti con il Pentagono. 

 


E’ sempre stato un problema della Cina e del suo programma di sviluppo Made in China 2025: la capacità produttiva c’è, ma manca un pezzo fondamentale, che riguarda la fase d’ingegneria e di studio (per la quale forse è necessario un ambiente libero dalle imposizioni governative). “In certi settori la tecnologia americana è superiore: non possiamo fare certe cose senza la tecnologia straniera. Non c’è la stessa base tecnica”, ha detto al Washington Post uno scienziato cinese di un laboratorio universitario che conduce test per i veicoli ipersonici. Secondo l’indagine dei giornalisti, sin dal 2019 sarebbero oltre trecento le acquisizioni che permettono alla Cina un accesso “pressoché illimitato” alle tecnologie americane, e sono molto settoriali. Per esempio, si tratta di software di ingegneria assistita per simulare il volo di veicoli, e testare le condizioni di volo virtualmente, senza avere bisogno di test reali, che sono molto costosi. Nel caso del missile ipersonico il test di volo virtuale è fondamentale, visto che la fase progettuale è a rischio altissimo e nessuno vuole sprecare missili costosi e in mondovisione. “Altre vendite includono hardware come gli interferometri, che possono essere utilizzati dagli scienziati per acquisire dati altamente precisi nei test reali”. Secondo il Washington Post, molte delle acquisizioni oggetto dell’indagine potrebbero essere alla base del primo test di un missile ipersonico da parte della Cina nel 2021, che fu un successo e cambiò radicalmente la percezione di Pechino nel mondo. 

 


Il problema delle acquisizioni cinesi riguarda ambiti particolarmente difficili da controllare. Certe tecnologie possono essere ottenute per le applicazioni in settori civili, solo che quasi sempre il software o l’hardware è dual use, cioè si può usare anche nel settore militare. L’elusione dei divieti americani (o europei) in questo caso è molto facile. E poi c’è il sistema delle scatole cinesi usato da Pechino per non mostrare l’acquirente finale, quasi sempre un’azienda di stato o legata alla Difesa. Diventa quindi un doppio lavoro per gli esportatori, che richiede prima un’analisi di intelligence e poi la vendita. Ed è questa fluidità delle acquisizioni cinesi che ha costretto, in qualche modo, la Casa Bianca di Biden a dare il via al decoupling – già per certi versi iniziato da Pechino con la pandemia – soprattutto nel settore tecnologico. E che ha accelerato anche la creazione del meccanismo di screening degli investimenti esteri europeo, che però ha dei limiti concreti: può fermare l’acquisizione di aziende strategiche ma non può fare niente sulle collaborazioni. Un rapporto di Horizon Advisory di giugno dimostra come il principale costruttore europeo di aerei, Airbus, negli ultimi anni ha stipulato diversi accordi di condivisione di tecnologie e di produzione con entità legate all’apparato militare statale cinese. Commentando con Politico il rapporto, un alto funzionario della Difesa di un paese occidentale ha detto che “Airbus ha imparato la lezione nel modo più duro. Da tempo (la collaborazione con la Cina) è stata una preoccupazione per alcuni governi... ma prima delle recenti vicende geopolitiche, tutti erano entusiasti del mercato cinese”. 
E del resto per Pechino l’assimilazione di tecnologia straniera è una priorità, che va di pari passo con una abile capacità di invogliare persone fisiche ed esperti a condividere capacità operative, come nel caso dei piloti da guerra inglesi. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.