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urne dell'est

Due elezioni europee su tre non sono andate troppo male per Putin

Guido De Franceschi

Si è votato in Lettonia, Bulgaria e Bosnia. Negli ultimi due paesi i risultati non assicurano governi che possano prescindere da movimenti filorussi. Un fattore da non sottovalutare, considerato che quella parte di mondo segna il confine geografico e ideologico tra il mondo democratico e il totalitarismo di Mosca

Nello scorso fine settimana, sul fronte orientale dell’Europa – e cioè lungo il confine ideologico che separa il mondo democratico dalla Russia di Putin – si sono svolte tre elezioni importanti: in Lettonia, in Bulgaria e in Bosnia ed Erzegovina.

 

Nel caso della Lettonia, gli aspetti delicati sono la condivisione di una frontiera geografica con la Russia (e con la Bielorussia), una tensione con Mosca che non si è mai assopita fin dalla secessione dello stato baltico dalle macerie sovietiche e la presenza di una minoranza di lingua russa pari a un quarto della popolazione complessiva, con un peso ancora superiore nella capitale Riga. Nel caso della Bulgaria, il problema è costituito da una situazione politica così caotica da risultare paradossalmente immobile, dalla presenza di forze politiche che esprimono in modo esplicito posizioni molto favorevoli al Cremlino e da una problematica dipendenza dal gas russo. Nel caso della Bosnia la debolezza sta nella fragilità di un paese che rimane sul ciglio della dissoluzione e nella forza, fra i serbo-bosniaci, dell’ultranazionalista Milorad Dodik, che è un putiniano di ferro e che costituisce uno strumento con cui la Russia potrebbe allargare una crepa nel cuore dell’Europa.

 

In Lettonia hanno vinto con il 19 per cento gli europeisti di Nuova unità, una forza politica che fa parte del Partito popolare europeo e che è guidata dal premier uscente, Krisjanis Karins, che ha il doppio passaporto lettone e statunitense (è nato in Delaware). Karins cercherà alleanze in un Parlamento in cui hanno ottenuto seggi sette formazioni. Dalle retrovie è cresciuta anche Alleanza nazionale, un partito di destra assimilabile al mondo sovranista (ma in Lettonia questo garantisce ostilità verso Mosca). Invece il partito Armonia, che  raccoglie il voto di larga parte della minoranza russa e che alle ultime politiche era stato il più votato, è affondato sotto la soglia di sbarramento del 5 per cento. I leader di Armonia si erano distanziati da Putin ma pare che, in tempo di guerra, questo non sia bastato a rassicurare gli elettori russofoni che non vogliono che la difesa dei loro diritti linguistico-culturali finisca per avere conseguenze nefaste di altra natura. E anche l’Unione russa di Lettonia  è rimasta impigliata nei fondali del 3,6 per cento. Entrano in Parlamento solo gli antieuropeisti di Per la stabilità! (7 per cento), russofili ma non si sa  quanto filoputiniani. In ogni caso, gli amici del Cremlino, in Lettonia, hanno convinto poco anche i russofoni. E non trovano giustificazioni nell’affluenza (59 per cento), in crescita rispetto al 2018.

    

In Bulgaria gli elettori, che sono chiamati così di frequente alle urne da avere ormai scavato un solco tra la propria casa e il seggio (avevano già votato in aprile, luglio e novembre dell’anno scorso), hanno risposto con il corrispondente entusiasmo: l’affluenza non ha raggiunto il 40 per cento. Come nelle precedenti tornate, il voto è stato così poco “bulgaro” – almeno secondo l’accezione corrente nel vocabolario politico italiano, che non si è evoluto dai tempi di Todor Zivkov – da rendere un rebus la formazione di una maggioranza. Il vincitore è l’ex premier di lungo corso Boyko Borisov, che ha ottenuto il 25 per cento per il suo partito Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria (Gerb). Borisov è schierato con l’occidente, ma gli sarà difficile confezionare un governo che possa prescindere da movimenti ardentemente filorussi, come Revival (10 per cento) o Risveglio bulgaro (poco meno del 5). Infatti c’è un’incompatibilità che sembra assoluta tra il Gerb e il movimento Noi continuiamo il cambiamento, che ha raccolto quasi il 20 per cento ed è guidato da Kiril Petkov, che nei primi sei mesi di quest’anno è stato un premier molto antiputiniano. Petkov e gli europeisti di Bulgaria democratica, infatti, considerano Borisov e i suoi potenziali alleati del Movimento per i diritti e le libertà (punto di riferimento della minoranza turca) come il simbolo della restaurazione di un passato di corruzione e cattive pratiche. E la ragion d’essere politica di Petkov & Co. è  nel contrasto con quel passato.

  

In Bosnia la situazione rimane tesa e interlocutoria. Tra i serbo-bosniaci hanno prevalso i nazionalisti secessionisti e filoputiniani. Tra i croati-bosniaci e i bosgnacchi musulmani hanno invece vinto, e non era scontato, i non-nazionalisti rivolti verso occidente. Ma rimane una forte contrapposizione, garantita dal groviglio istituzionale su base etnica che fu confezionato all’indomani della guerra per imbrigliare le spinte centrifughe. E il fatto che l’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, il tedesco Christian Schmidt, abbia scelto in modo intempestivo proprio il momento della chiusura dei seggi per applicare i cosiddetti “poteri di Bonn” – che, come l’arma segreta in un cartoon giapponese, gli permettono di intervenire sulla legislazione del paese balcanico – e abbia annunciato modifiche (non retroattive) sui meccanismi di selezione dei rappresentanti eletti, è stato applaudito da Washington ma non da Bruxelles.