La piccola Taiwan thailandese

A Mae Salong i figli dei soldati del Kuomintang ora coltivano tè. La Guerra civile cinese passa da qui

Giulia Pompili

“I miei nonni sono morti in Birmania. I miei genitori sono arrivati in Thailandia negli anni Settanta”, racconta Fang. La 93esima divisione che rifiutò di rifugiarsi sull’isola. La guerra dell’oppio nel Triangolo d’oro e l’asilo offerto dal re

Chiang Mai. Per arrivare a Mae Salong, nel nord della Thailandia al confine con la Birmania, si devono attraversare le montagne della provincia di Chiang Rai, un migliaio di metri sul livello del mare, e diverse comunità locali. Da queste parti vivono i gruppi etnici minoritari della Thailandia, gli Akha, i Lahu, gli Yao, tutti originari della Cina sud-occidentale. “Me lo domando spesso, chi sono? Dove sono le mie radici?”, dice al Foglio Fang, una quarantenne che gestisce un’azienda di tè, il principale business dell’area. “La mia famiglia è originaria dello Yunnan, in Cina. I miei nonni sono morti in Birmania. I miei genitori sono arrivati qui in Thailandia negli anni Settanta, senza nulla. Io ho la cittadinanza e i documenti thailandesi, ho studiato in America, parlo thai, mandarino e inglese”, dice Fang. “Spesso mi domando: chi sono davvero? E la risposta che mi dò è: sono di Mae Salong”. La storia di Fang è uguale a quella di quasi tutti gli abitanti di Mae Salong. Questa piccola comunità è figlia della guerra civile cinese, e offre una prospettiva diversa dell’origine dello scontro tra Cina e Taiwan, che non arriva dal nulla, tantomeno con la visita di Nancy Pelosi a Taipei, ma ha radici lontane e complicate. In questa Little China a quaranta chilometri dalla città di Chiang Rai, che oggi si chiama Santikhiri, si parla cinese mandarino, si mangia il cibo tipico dello Yunnan, ma le insegne dei negozi usano i caratteri tradizionali cinesi, e non quelli semplificati, cioè quelli figli della Rivoluzione culturale di Mao. La chiamano la “piccola Svizzera”, il paese europeo dove studiò la regina madre thai Sirikit, innamorata di queste montagne. E’ una piccola Taiwan. 

 

“Quando arrivammo in Thailandia, dovevamo trovarci un’occupazione. Prima del nostro arrivo i thailandesi, le foglie di tè, se le mangiavano. Allora abbiamo importato il tè dalla Cina, ma non sapevamo come coltivarlo. Lentamente, errore dopo errore, è diventata la nostra principale attività”, ci spiega Fang. Il tè in realtà era un sostituto dell’oppio, il primo vero business delle comunità di quest’area che si trova a solo un’ora e mezza di auto dal famigerato Triangolo d’oro, il punto d’incontro sul fiume Mekong dei confini tra Thailandia, Birmania e Laos, famoso allora per il traffico d’oppio e oggi per i traffici illeciti in generale. 


Su una collinetta sopra alla via principale di Mae Salong il governo thailandese e quello taiwanese, nel 2003, hanno costruito un museo-memoriale dei “martiri cinesi”, che ha scarso successo turistico internazionale ma è molto frequentato dai taiwanesi in viaggio nel paese. E’ un monumento alla lotta del Kuomintang, il Partito nazionalista cinese guidato da Chiang Kai-shek, e a quella divisione del suo esercito che fu arruolata dalla Thailandia per combattere i comunisti. Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, mentre l’Armata rossa di Mao Zedong stava rapidamente conquistando tutta la Cina continentale, i nazionalisti di Chiang decisero di scappare sull’isola di Taiwan, dove il Generalissimo spostò il governo della Repubblica di Cina il 7 dicembre del ‘49. Nei mesi precedenti era andata in scena la Grande ritirata sull’isola oggi al centro delle tensioni internazionali tra la Repubblica popolare cinese e l’America. I numeri esatti di quante persone furono spostate a Taiwan non si conoscono: i documenti taiwanesi parlano di un milione di persone, altri di due milioni e mezzo. Solo la 93esima divisione  e l’ottava Armata guidata dal generale Li Mi del Kuomintang rifiutarono di arrendersi. Quando l’Armata rossa entrò a Kunming, il capoluogo della provincia cinese dello Yunnan, circa ventimila soldati del Kuomintang oltrepassarono il confine birmano e si stabilirono davanti alla frontiera con la Thailandia. Lì, finanziati dalla Cia e dal nuovo governo di Taiwan, si addestravano per tentare una eventuale offensiva per riconquistare lo Yunnan cinese, un’offensiva che non ci fu mai. Nel frattempo, per finanziarsi, entrarono nel grande affare dell’oppio, e la Birmania iniziò a mal tollerare la comunità anticomunista cinese insediata dentro ai suoi confini. Divenne una questione internazionale, e molti di loro, dopo l’intervento dell’Onu, furono trasportati a Taiwan. Altri restarono come irregolari ma furono costretti a fuggire dal territorio birmano e a entrare in quello Thailandese. Nel 1961 circa tremila soldati e le loro famiglie, guidati dal generale Tuan Shi-wen (sepolto qui a Mae Salong) si stabilirono nel nord della Thailandia, in un villaggio che divenne nel giro di pochi anni il centro della raffinazione dell’eroina del sud-est asiatico. Il governo thailandese decise di offrire asilo a questi soldati, in cambio del loro servizio nell’esercito contro i comunisti thai: li chiamarono “l’esercito degli irregolari cinesi”, nome in codice 04. Alla fine degli anni Ottanta, quando il pericolo rosso fu scampato, tutto cambiò di nuovo per la comunità cinese in Thailandia. Fu direttamente la famiglia reale, con le frequenti visite della regina  Sirikit, a finanziare la trasformazione del business dell’area: dall’oppio al tè, dalla giungla e i fucili alle scuole e gli ospedali. 


Molti dei giovani adulti di Mae Salong sono nipoti di quei soldati, che finanziarono la loro guerra con il traffico d’oppio, che cambiarono tre paesi nel giro di un decennio, che non sanno cosa sia la Cina comunista e perfino oggi hanno poca voglia di parlarne. I murales sui muri, però, celebrano i nonni che combattevano contro Mao. Molti dei giovani adulti di Mae Salong conoscono lo Yunnan soltanto dai racconti di famiglia, ma è Taiwan il posto più vicino a loro. Mae Salong è ancora oggi un pezzo di storia sospeso tra i confini del sud-est asiatico, dove è facile individuare gli errori compiuti dall’occidente in Asia, ma anche l’enorme frattura che la Repubblica popolare cinese continua a mettere tra sé e il resto del mondo. 
 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.