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I pareri contrastanti su Pelosi a Taiwan. Ha fatto bene ad andare?

Redazione

La speaker della Camera ha spiegato le ragioni di principio della sua visita nell'isola, ma i commentatori sono divisi tra chi pensa che sia una provocazione e chi pensa che sia una dimostrazione di forza. Qualche spunto

Nancy Pelosi, speaker della Camera, ha spiegato sul Washington Post le ragioni della sua visita a Taiwan: “Circa 43 anni fa, il Congresso degli Stati Uniti approvò a larga maggioranza – e il presidente Jimmy Carter firmò la legge – il Taiwan Relations Act, uno dei più importanti pilastri della politica estera degli Stati Uniti nell’area dell’Asia-Pacifico”. In quella legge Washington si impegnava a “considerare qualsiasi tentativo per determinare il futuro di Taiwan con mezzi diversi da quelli pacifici... una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area del Pacifico occidentale e una grave preoccupazione per gli Stati Uniti”.

 

Oggi, scrive Nancy Pelosi, “l’America deve ricordare quell’impegno. Dobbiamo essere al fianco di Taiwan, che è un’isola che resiste”, che si batte per la pace, la sicurezza e il dinamismo economico: “E’ preoccupante che questa vibrante e solida democrazia sia minacciata. Negli ultimi anni, Pechino ha intensificato drasticamente le tensioni con Taiwan”, scrive la Pelosi, e per questo, “di fronte all’accelerazione dell’aggressività del Partito comunista cinese, la visita della nostra delegazione congressuale dovrebbe essere vista come una dichiarazione inequivocabile del fatto che l’America è al fianco di Taiwan, nostro partner democratico, nella difesa della propria libertà”.
La Pelosi è andata a Taipei a riaffermare un principio – vi difenderemo dalle aggressioni – e a dimostrare la solidarietà di un alleato convinto. Ma sui tempi di questa visita e sulla sua opportunità ci sono pareri contrastanti. Ne abbiamo raccolti alcuni.

 

L’Editorial Board del Washington Post, che ha ospitato l’intervento della Pelosi e che condivide l’idea che sia essenziale “per l’America e i nostri alleati chiarire che non cediamo mai di fronte agli autocrati”, scrive: “Ciò che non comprendiamo è l’insistenza della Pelosi nel voler dimostrare il suo sostegno in questo modo, in questo momento, nonostante gli avvertimenti – da parte di un presidente del suo stesso partito – su una situazione geopolitica già abbastanza incerta". Per quanto l’ottantaduenne Pelosi possa desiderare una chiusura esemplare per il proprio mandato da speaker – prima che una probabile vittoria del Partito repubblicano a novembre – andare a Taiwan ora, mentre il presidente cinese Xi Jinping sta organizzando il suo terzo mandato, non è stato saggio. Perché la priorità è la guerra in Ucraina, perché l’occidente non si può permettere un’altra crisi in questo momento, perché anche Joe Biden era molto scettico rispetto a questa visita, e perché sfidare la Cina è una decisione che va presa sul serio, se la si prende: “Gli Stati Uniti non devono mai sacrificare i propri principi né cedere alle minacce cinesi. Un motivo in più per preparare con cura dove e quando affrontare la Cina. Grazie alla Pelosi, l’Amministrazione Biden ora si trova invece costretta a reagire e improvvisare”.

 

Dello stesso avviso è l’Economist, che denuncia una “confusione strategica” della politica americana con la Cina: “Un viaggio pensato per trasmettere forza rischia invece di mostrare la confusione e la mancanza di obiettivi dell’Amministrazione Biden”. Il magazine britannico è perplesso sul tempismo della visita più sul lato cinese che rispetto al desiderio della Pelosi di costruire la propria eredità politica: “Xi Jinping deve affrontare grandi sfide interne mentre si prepara al congresso del Partito comunista, durante il quale dovrebbe ottenere un terzo mandato quinquennale come leader del partito, violando le norme usuali. Xi ha alimentato una forma aggressiva di nazionalismo e ha collegato la ‘riunificazione’ con Taiwan al suo obiettivo di ‘ringiovanimento nazionale’. E’ un momento pericoloso per mettere alla prova la sua determinazione solo per il gusto di farlo”.

 

L’Economist sottolinea anche il fatto che Biden non fosse d’accordo con questa visita e conclude: “La risposta cinese potrebbe essere messa in atto nel corso di settimane e mesi, se non addirittura di anni. In questo lasso di tempo, il test dell’impegno americano non saranno le visite che conquistano i titoli dei giornali, ma se Taiwan diventerà più resistente”.
Da queste analisi quindi emergono come causa ed esito della visita: un protagonismo avventato della Pelosi, un mancato coordinamento con la Casa Bianca e un possibile rafforzamento della leadership cinese. In sintesi: una provocazione che si poteva evitare.

 

Lo storico Niall Ferguson ha elencato su Bloomberg i “quattro misteri” di questa iniziativa della Pelosi – l’approccio è decisamente scettico. Primo mistero: la visita della speaker della Camera era programmata in primavera, ma fu posticipata perché lei prese il Covid, “perché il Pentagono ci ha messo tre mesi per rendersi conto che il viaggio a Taiwan non era ‘una buona idea’? Non è che le relazioni tra Stati Uniti a Cina abbiano avuto uno strappo improvviso nelle ultime settimane”. Secondo mistero: “Perché, con le mani già occupate dall’invasione russa in Ucraina, il team di sicurezza nazionale dell’Amministrazione Biden ha voluto ripetere l’esperienza del 1996?”.

 

Allora l’Amministrazione Clinton arrivò a uno scontro quasi diretto e molto bellicoso con la Cina, proprio per via di Taiwan. Ferguson prova in questo caso a dare una risposta: “L’Amministrazione Biden vuole essere più falca nei confronti della Cina rispetto al suo predecessore. Lo schema che adotta è coerente”. Secondo lo storico britannico, c’è un calcolo elettorale dietro a questa postura: “Il calcolo alla Casa Bianca rimane, come nelle elezioni del 2020, che essere duri con la Cina fa guadagnare voti – o che fare qualsiasi cosa i repubblicani possano dipingere come ‘debole nei confronti della Cina’ fa perdere voti. Tuttavia, è difficile credere che questo calcolo reggerebbe se il risultato fosse una nuova crisi internazionale, con tutte le sue potenziali conseguenze economiche”.

 

E questo passaggio dalla politica interna alla situazione economica globale porta al terzo mistero: “E’ ovvio a chiunque Washington che una crisi economica così grave aumenta, anziché ridurre, l’incentivo al conflitto con gli Stati Uniti. Quanto bisogna poco bisogna conoscere la storia per non vedere il bisogno urgente di Xi di una nuova fonte di legittimità per il Partito comunista cinese, ora che la crescita economica non può più fornirla?”. Il momento economico, politico e militare è sbagliato, sostiene Ferguson, che conclude con il quarto mistero e una citazione trumpiana, che forse è la parte più difficilmente digeribile per i democratici: “L’ultimo mistero è che un’Amministrazione democratica si trova ora in una rotta di collisione che neppure il suo predecessore non avrebbe mai rischiato. Certo, l’Amministrazione Trump ha fatto molte cose che hanno fatto infuriare Pechino, non ultima l’imposizione dei dazi che l’Amministrazione Biden sembra non riuscire a revocare del tutto. Ma Trump si sarebbe spinto sull’orlo della guerra per Taiwan? Secondo il memoir dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, Trump amava indicare la punta di uno dei suoi pennarelli e dire: ‘Questa è Taiwan, poi indicare il Resolute desk nello Studio ovale e dire: ‘Questa è la Cina’. ‘Taiwan è a un metro e mezzo dalla Cina’, ha detto Trump a un senatore repubblicano. ‘Noi siamo a ottomila miglia di distanza. Se invadono, non c’è una cazzo di cosa che possiamo fare”.

 

Bret Stephens, commentatore conservatore del New York Times, scrive al contrario che “dopo che la visita era stata annunciata, sarebbe stato catastrofico fare marcia indietro”. Stephens, premio Pulitzer per le sue analisi e autore di un saggio nel 2014, quindi in età obamiana, sull’isolazionismo americano dal titolo “America in Retreat: The New Isolationism and the Coming Global Disorder”, mette un po’ d’ordine nel modo con cui i regimi tendono a definire ogni azione ferma nei loro confronti una provocazione. Due cose per cominciare: “Le visite congressuali americane a Taiwan ci sono da decenni” e ci sono delle “intese diplomatiche che regolano le relazioni tra Stati Uniti e Cina e Taiwan dagli anni Settanta: la politica di una sola Cina e il Taiwan Relations Act”.

 

Ma quando la Cina ha visto crescere il proprio potere “e ha percepito il declino del potere e della determinazione americani, ha deciso un nuovo playbook: fare affermazioni oltraggiose, trasformare le presunte provocazioni in utili pretesti, fare passi incrementali ma sempre più aggressivi e usare la forza solo come ultimo colpo schiacciante. E’ così che ha imposto il proprio controllo dittatoriale su Hong Kong. E’ così che sta gradualmente conquistando il dominio militare nel Mar cinese meridionale. E’ così che sta cercando di minare la sovranità del Giappone su alcune delle sue isole periferiche. Ed è questo l’approccio che ora sembra utilizzare con Taiwan”.

 

Le intimidazioni della Cina aumenteranno e la visita della Pelosi sarà trattata come una provocazione. Che cosa deve fare l’America? “Non tirarsi indietro”. Stephnes fornisce anche un piccolo vademcum: “1. Le delegazioni del Congresso dovrebbero arrivare a Taiwan ogni settimana per il prossimo anno. Deve diventare talmente una routine che Pechino si dimenticherà di protestare. 2. Biden dovrebbe dichiarare formalmente ciò che ha detto più volte a voce: gli Stati Uniti interverranno militarmente se la Cina cercherà di invadere Taiwan. Può sottolineare il punto con  transiti frequenti di navi della Marina statunitense attraverso lo Stretto di Taiwan e con un’espansione delle esercitazioni congiunte e segrete che le forze speciali statunitensi e taiwanesi hanno già condotto. 3. Gli Stati Uniti possono anche fornire a Taiwan il tipo di armi che hanno fatto tanto male ai russi: missili anticarro Javelin, droni Switchblade, missili antiaerei Stinger, missili antinave. 4. Biden dovrebbe proporre un forte aumento delle spese militari, in particolare per la Marina, che ora è dietro a quella cinese in termini di numero di navi. Questo avrebbe un sostegno bipartisan sia come politica industriale sia come misura di sicurezza globale”.

 

Così, conclude Stephens, “con un po’ di fortuna, la Cina accetterà che i costi finali del confronto diretto superano di gran lunga i benefici. E’ una lezione che Vladimir Putin potrebbe aver già imparato – anche se solo dopo aver invaso l’Ucraina e con un prezzo tragico per il mondo. La chiave per salvare Taiwan è far capire a Pechino questa lezione ora, prima che si butti in una tragedia simile. Applausi alla Pelosi per la sua fermezza”. 
Philip O’Brien, storico delle guerre e professore di Studi strategici dell’Università di St Andrews, ha affidato a Twitter la sua analisi, come fa ormai con costanza e brillantezza da quando Putin ha invaso l’Ucraina.

 

“Molti mi chiedono perché non ho detto molto sulla visita della Pelosi a Taiwan”, ha scritto O’Brien due giorni fa, “e la risposta è che sono lacerato e riesco a vedere ragioni convincenti da entrambe le parti”, cioè tra chi critica e chi applaude la Pelosi. Poi mette in fila i suoi pensieri: “Il motivo per sostenere la visita è sostenere in modo chiaro una società democratica e libera che vive sono la minaccia militare costante di uno stato più potente, dittatoriale e profondamente oppressivo che mostra nel trattamento del popolo uiguro le sue politiche più oscene. Sostengo il diritto dei taiwanesi alla libertà e all’indipendenza, e se la Cina dovesse davvero attaccare chiedere di sostenere Taiwan con un forte sostegno di aiuti e militare”.

 

O’Brien pensa che la stessa cosa la farebbero i giapponesi e tutti i paesi che subiscono le minacce cinesi, quindi vale “un sì definitivo alla libertà di Taiwan”. Lo storico ricorda che le visite dei parlamentari americani ci sono sempre stati e quindi anche questa dovrebbe essere sostenuta. I dubbi riguardano, come per altri, “il tempismo e il suo possibile impatto”. “Perché proprio adesso? La Cina non stava minacciando in modo particolare Taiwan e in più c’è una priorità globale molto più alta in Ucraina, dove le scelte cinesi possono fare una enorme differenza. Di fatto la Russia può continuare la guerra soltanto con il sostegno di Pechino. Se questo è vero, è questo il momento di essere deliberatamente provocatori? Per di più che Taiwan, secondo me, in questo momento non rischia di essere invasa. Mi colpisce come una cosa bizzarra il modo casuale con cui alcuni parlano di un assalto anfibio a Taiwan. Se davvero la Cina stesse pianificando una cosa del genere, si tratterebbe della operazione più complessa e più difficile di una guerra. Più difficile del D-day, per dire, a causa delle forze anti navali presenti a Taiwan e della preparazione dell’esercito dell’isola. In più la Cina non ha alcuna esperienza reale di un attacco anfibio. Nessuna. Come mostra la guerra in Ucraina, le operazioni complesse sono davvero difficili. Con tutta probabilità, un’invasione cinese di Taiwan sarebbe un fiasco sanguinoso”.

 

Per concludere, scrive O’Brien: “Se la vittoria dell’Ucraina è ovviamente la priorità geopolitica e se Taiwan è al sicuro, perché arruffare il pelo in un momento tanto delicato? Lo vedete quanto sono lacerato?”.
A proposito di Giappone e dei paesi che vivono molto da vicino la minaccia cinese e l’impatto di una crisi tra Stati Uniti e Cina, Masahiro Okoshi, a capo dell’ufficio di Washington del giapponese Nikkei, scrive che “il problema della visita della Pelosi è che costringe l’Amministrazione Biden a gestire le conseguenze delle azioni di un singolo politico, per quanto siano azioni di principio”. Anche Okoshi pensa che il viaggio della Pelosi non sia estraneo alle dinamiche elettorali interne agli Stati Uniti, ma contrappone la prospettiva americana – “la mossa della Pelosi può avere un qualche valore strategico per prevenire qualsiasi tentativo di Pechino di annettere Taiwan con la forza” – a quella cinese – “Washington sembra negare gradualmente la politica ‘One China’ che è alla base delle relazioni sino-americane”. Okoshi vede quindi una confusione da entrambe le parti e questo rende tutto più pericoloso, tanto che il Giappone si prepara: “Alcune aziende giapponesi si stanno già preparando alla crisi di Taiwan. A guardare quel che accade in questi giorni, dovranno adattarsi a crisi ricorrenti”.

 

Vincent Chao, che è stato il capo della rappresentanza culturale ed economica di Taipei negli Stati Uniti (gli Stati Uniti non riconoscono l’indipendenza di Taiwan quindi le rappresentanze diplomatiche hanno sempre denominazioni articolate), ha spiegato la prospettiva taiwanese di questa visita. “L’arrivo della Pelosi è accolto con favore, è coerente con l’interesse nazionale di Taiwan e con il quadro delle relazioni esistenti tra Taiwan e gli Stati Uniti”, ha scritto Chao in un thread su Twitter.

 

Anche lui ricorda che le visite ci sono sempre state, “se lasciamo che le relazioni tra America e Taiwan e i precedenti siano stravolti dalle intimidazioni del Partito comunista cinese, presto tutti gli elementi di questa relazione rischierebbero di essere messi in discussione”. Il danno sarebbe molto grande, insomma, ma per quanto riguarda le reazioni cinesi? “Hanno già risposto dal punto di vista economico”, scrive Chao, “potranno seguire anche azioni militari. Ma è importante sottolineare che sfortunatamente questo è già parte delle nostre attuali relazioni oltre lo stretto, con o senza la visita della Pelosi. Per sintetizzare: non possiamo permettere che la Cina rovini i progressi di decenni delle relazioni tra Taiwan e gli Stati Uniti. Non è nell’interesse nazionale di Taiwan e non è coerente con gli interessi condivisi in tutta la regione. Opporsi alla visita della Pelosi creerebbe nuovi rischi invece che mitigare quelli che ci sono già”.

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