(Foto di Lapresse) 

La ferita d'America

Si riapre il dibattito su Emmett Till, ragazzino nero linciato per aver fischiato a una ragazza

Stefano Pistolini

60 anni prima di George Floyd la società americana era lacerata da dinamiche razziali, come oggi. La storia del 14enne ucciso subisce oggi una svolta: le dichiarazioni della donna "violentata"

Emmett Till non vuole morire. Non proprio lui, il ragazzino nero di Chicago linciato a 14 anni, accusato d’aver molestato una giovane bianca, Carolyn Donham Bryant, mentre era in vacanza da dei parenti a Money, Mississippi, catturato e maciullato dal marito di lei e da un suo cugino che un infame processo e una giuria bianca riconosceranno innocenti, come se ciò che avevano commesso non costituisse reato. E’ la sua icona a non impallidire mai, creata d’istinto da sua madre, allorché pretese il funerale pubblico a Chicago, con la bara aperta per esporre al mondo il corpo mutilato del figlio, chiedendo alle riviste lette dai neri di pubblicare le foto del cadavere scempiato nella bara, a memento di cosa produca il razzismo. Tutto ciò capitava nel 1955 e le polemiche esplose attorno alla vicenda furono violente, con schieramenti contrapposti in favore e contro i killer o, più in generale, mettendo alla sbarra la mentalità dominante negli stati del sud. 


Tanto per completare il quadro: secondo le testimonianze dell’epoca, le molestie di cui Emmett si sarebbe macchiato all’indirizzo della ventunenne Carolyn, che lavorava dietro il banco di un emporio, sarebbero consistite in un fischio d’ammirazione all’indirizzo della ragazza, anche se forse s’era trattato solo d’un verso emesso dal ragazzo, che soffriva di balbuzie e cercava di aggirare il problema emettendo quel suono mentre tentava di comprare delle gomme da masticare. Più di 60 anni prima di George Floyd, dunque, la società americana era altrettanto lacerata da cronache che chiamavano in causa in modo viscerale le storture d’una piaga mai sanata come quella razziale. Nel 2006 la targa piazzata nel luogo del linciaggio di Emmett viene subito insozzata di vernice nera e coperta dalla scritta “KKK”. L’anno successivo otto targhe disseminate nei luoghi del martirio del ragazzino a segnarne le stazioni vengono distrutte, rimosse, o prese a colpi di pistola. Oggi, nel 2022, 67 anni dopo l’assassinio di Till, salta fuori un documento impressionante: per una serie di circostanze, l’Associated Press ottiene dall’Università della North Carolina – che avrebbe dovuto secretarlo fino a vent’anni dopo la morte di Carolyn Bryant – la memoria stesa dalla donna, intitolato “Io sono più di una fischiata”, che ora può essere letto online. 


Nel testo Carolyn, che oggi ha 87 anni, sostiene d’essere stata inconsapevole delle intenzioni del marito e del suo compare nei confronti di Emmett e che anzi avrebbe tentato di intercedere in favore del ragazzo dopo che era stato catturato, quando i due uomini l’avevano convocata per identificarlo come il molestatore. “Non volevo gli succedesse niente, e pensavo che nulla sarebbe accaduto. Ho cercato di proteggerlo, dicendo a mio marito che non era lui e di riportarlo a casa”. Carolyn scrive di sentirsi vittima della vicenda quanto lo è stato Emmett e di aver pagato l’accaduto con una vita di sofferenza. “Ho sempre pregato per la famiglia di Emmett e sono dispiaciuta per ciò che ha passato”, sono le ultime parole del testo. Che ha però sollevato l’attenzione dell’Fbi, per come contraddice le testimonianze rese dalla stessa Carolyn in sede processuale, riguardo allo svolgimento dei fatti nel giorno fatale e per aver sempre asserito di non aver discusso dell’accaduto col marito – il quale, a sua volta, durante un’intervista a pagamento con un magazine nazionale, ammise candidamente d’essere “il giustiziere” del ragazzo. Ora alcuni veterani superstiti dell’inchiesta alzano la voce, invocando l’arresto dell’anziana Carolyn e la riapertura del caso – chiamandola a corresponsabilità. 


Non accadrà nulla di tutto questo. E’ troppo tardi, troppa polvere e vergogna si sono accumulate su questa storia. Riaprirla sarebbe riaprire una ferita, una delle tante di cui è cosparso il corpo della nazione. Più che la tardiva revisione di un processo insulso, ciò a cui questa vicenda può servire è l’apertura d’una franca conversazione sui motivi di ciò che accadde quel giorno a Money e che ancora si ripete ogni giorno per le strade d’America. Ma esiste davvero la volontà di cominciare questo discorso?