Alle origini della Roe vs Wade, il dibattito giuridico di allora e la privacy delle donne

Matteo Muzio

La storia della sentenza della Corte Suprema racconta come sono cambiate l’opinione pubblica americana, la visione dei partiti e la battaglia culturale  

Con la sentenza Dobbs vs New York della Corte Suprema finisce il diritto generalizzato ad abortire sul suolo degli Stati Uniti. I sei giudici conservatori hanno votato per restituire il diritto “agli stati e ai loro rappresentanti eletti”, anche se un’opinione concorrente del giudice capo Roberts avrebbe preferito il mantenimento dell’impianto giuridico della Roe. Finisce anche un cinquantennio dominato da una sentenza che fu il culmine di un movimento per legalizzare il diritto all’aborto, uno di quei momenti che nella giurisprudenza statunitense segna un prima e un dopo.

 

Prima di allora nessuna Amministrazione aveva osato prendere l’iniziativa per legalizzare l’aborto per via legislativa. Il sentimento dei legislatori anche democratici era  pro life, pure se da parte repubblicana non c’era una posizione univocamente antiabortista come oggi. Era insomma una posizione difficile da assumere e che avrebbe messo a rischio inutilmente la presidenza di Lyndon Johnson, già impegnata ad attuare le riforme della Great Society. Anzi, nella maggior parte degli Stati, nel 1972, l’aborto era proibito, con l’eccezione dell’Alaska, delle Hawaii, di Washington DC, dello stato di Washington, della California e di New York. Le donne che potevano permetterselo andavano in questi stati, negli altri c’era il rischio dell’illegalità, anche se la prosecuzione criminale era una rarità: accadde a Shirley Wheeler nel 1971, all’epoca dei fatti ventitreenne, che fu denunciata dal personale ospedaliero per aver avuto un’interruzione di gravidanza tra le mura dell’edificio.

 

Un tribunale la condannò a due anni per omicidio e il suo caso scatenò una difesa non soltanto da parte delle organizzazioni femministe: il magazine Playboy finanziò la sua difesa legale con tremila e 500 dollari, pari a circa 25 mila odierni, e lanciò una vasta campagna di stampa per chiedere che le donne avessero il diritto di abortire. La campagna di due avvocate, Sarah Weddington e Linda Coffee, prese di mira una delle leggi più restrittive, quella del Texas, loro stato di residenza. La legge risaliva al 1854, quando il governatore Elisha Pease firmò una legge che puniva con la reclusione dai due ai cinque anni chiunque avesse praticato un aborto in qualunque caso, a meno che la vita della madre non fosse in pericolo. La legge specificava che anche eventuali complici fossero punibili con sanzioni pecuniarie o con pene detentive.

 

Contrariamente al pensiero odierno, la legge fu attuata per salvaguardare la vita di quelle donne che si affidavano a persone totalmente inadeguate e che mettevano la propria vita a rischio. Una ratio simile a quella che accompagnò gli altri divieti instaurati nei decenni successivi e che, come testimonia un testo anonimo pubblicato nel 1869 dal settimanale femminista The Revolution, l’aborto era visto come una calamità soprattutto per le donne che lo praticavano. Anche se, si aggiungeva nel testo, “i divieti vigenti non affrontavano il problema alla radice”.

 

Il team legale composto da Weddington e Coffee doveva individuare anche una giovane donna che avesse determinate caratteristiche. Prima tra tutte, non doveva essere nera. Il pregiudizio razziale dell’opinione pubblica era troppo grande per trovare una ragazza afroamericana, negli anni in cui si formava il mito della “Welfare Queen”, la madre single che campa di sussidi in virtù delle sue molte gravidanze indesiderate. Corrispondeva al caso perfetto invece Norma McCorvey, una texana di ventuno anni, bianca e alla sua terza gravidanza. Il caso perfetto: essendo single faticava a trovare un lavoro per fornire un sostentamento al suo primo figlio e al nascituro; il secondogenito era già stato adottato da una nuova famiglia. Normalmente non era prassi legale invitare potenziali clienti a essere al centro di casi esemplari e il caso fu eccezionale anche per questo. Norma non sapeva nemmeno se l’aborto dovesse essere legale o no, però aveva le idee chiare sul fatto di non volere la gravidanza: quindi non aveva nemmeno le caratteristiche della militante ideologica.

 

Per proteggerla si adottò un generico nome di donna, pari al nostro “Maria Bianchi”: Jane Roe. Henry Wade, invece, l’altra parte della causa, era il procuratore distrettuale di Dallas. A lui toccò il compito di difendere la legge texana. Nel frattempo, cambiarono ben due giudici: Hugo Black e John Marshall Harlan si ritirarono. Entrarono William Rehnquist, futuro presidente della Corte Suprema e all’epoca “guerriero solitario” conservatore e Lewis Powell, un pragmatico nominato da Nixon per riequilibrare il conservatorismo radicale di Rehnquist. La decisione si prospettava difficile per il giudice capo Warren Burger: giurista di idee moderatamente conservatrici, venne dopo il liberal Earl Warren, autore di molte sentenze trasformative della società americana, tra cui Brown v. Board of Education del 1954, tramite la quale, con un giudizio unanime della Corte, la segregazione razziale veniva bandita come incostituzionale. Ci vollero diversi anni per attuare quel provvedimento e fu la storia politica di quegli anni a raccontarcelo.

 

Anche nel caso della sentenza Roe c’erano delle asperità: a chi far scrivere le parole con cui si sarebbe potuto rendere legale l’aborto su tutto il territorio americano? Di sicuro non a Rehnquist, la cui filosofia giuridica era arcinota e infatti gli avrebbe fatto scrive un’opinione dissenziente. D’altra parte, nemmeno William Douglas, decano della Corte nominato da Roosevelt nel 1939, era una scelta praticabile: troppo progressista per essere accettato dal grande pubblico. Pertanto, si scelse il centro ideologico di Harry Blackmun, conosciuto come il “gemello” di Burger. Aveva tutte le caratteristiche necessarie per la scrittura di un’opinione dirompente senza farla apparire come tale. 

 

Nel gennaio 1973 il testo fu diffuso: dopo un’ampia disquisizione che coinvolgeva non soltanto la Common Law ma persino il diritto romano, Blackmun scrisse che una legge che proibisse l’aborto avrebbe interferito con la privacy della donna nel decidere a riguardo della sua vita personale. Il diritto alla privacy era stato introdotto di recente nella giurisprudenza grazie alla sentenza Griswold v. Connecticut del 1965, che di fatto consentiva l’acquisto di contraccettivi da parte di chiunque. Secondo il giudice Hugo Black, era un diritto nuovo. Si potrebbe dire inventato. Comunque, in linea con la filosofia giuridica allora prevalente, quella della “living Constitution”. Prendendo spunto da una lettera di Thomas Jefferson, che nel 1789 affermava che ogni Costituzione andrebbe riscritta ogni vent’anni, i giuristi definibili come liberal pensavano che la filosofia delle leggi cambiasse con l’evolversi della società. Non solo loro però: anche il cattolico William Brennan sottoscrisse questa visione nella sentenza Roe vs Wade. Soltanto il già citato Rehnquist e il kennediano Byron White dissentirono, affermando che non spettava alla Corte decidere chi valesse di più tra le madri e la vita di chi non sarebbe mai nato.

 

Questo impianto giurisprudenziale fu riaffermato vent’anni più tardi, nel 1992 con la sentenza Planned Parenthood v. Casey: il giudice Blackmun, pur concordando con l’impostazione che rendeva incostituzionale la legge della Pennsylvania che chiedeva il consenso del marito, scriveva che altre leggi come l’attesa di 24 ore aprissero la via a un graduale indebolimento della Roe. Lo affermò con ragione. Poche altre sentenze scatenarono nel nascente movimento conservatore l’idea che la volontà popolare e il buonsenso che da essa derivava venissero distorte da un sistema giuridico iniquo e perlopiù composto da progressisti. Tanto per fare un esempio, questo senso di tradimento istituzionale è alla base della strategia decennale del senatore e attuale leader repubblicano al Senato Mitch McConnell: occorre confermare più giudici conservatori possibili per riequilibrare le storture di allora.

 

Che fine fece Jane Roe, invece? Non ebbe mai un aborto, perché portò a termine la gravidanza e fece parte per anni del movimento evangelico che chiedeva di rovesciare la sentenza. Si è creduto a lungo che questa fosse una sua genuina convinzione. Anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2017, un documentario rivelò che invece accettò di farsi pagare per diventare una testimonial antiabortista. Ma la sua idea di allora non era cambiata. 

 

Com’è mutata invece la società americana? Nel 1973 era più contraria all’aborto, mentre adesso una maggioranza dell’opinione pensa che l’abolizione sia uno sconvolgimento eccessivo. Ma la mediazione di John Roberts non è riuscita, con la conseguenza che in molti degli stati governati dai repubblicani il diritto all’aborto sparirà nel giro di un mese, a cominciare dal Texas dove cominciò  la vicenda giuridica di Roe vs  Wade.

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