il racconto

Draghi in Ucraina, tra i riders di Kyiv e l'orrore di Irpin

Michele Masneri

Il premier italiano, in viaggio con Macron e Scholz per incontrare Zelensky, si ferma e parla due minuti con i cronisti: un'eternità. Si entusiasma per un dettaglio. Ricostruire. Edifici. E' la commozione pragmatica dell’“atermico”

Kyiv, dal nostro inviato. L’Ucraina che ieri Mario Draghi ha visitato nel già celebre vertice del treno – quello del convoglio blindato  che ci ha portato in undici ore dalla base polacca a Kyiv, convoglio molto simbolico, a bordo per la prima volta tre leader europei, lui Macron e Scholz – è un mondo decisamente a due facce: da una parte il paese che rinasce, che torna alla normalità, anche troppo. Se non si sapesse cosa è successo solo qualche mese fa uno potrebbe prendere Kyiv  per una capitalina fiorente lettone o estone o anche solo slovena coi suoi Domino’s pizza e gli specialty coffee e Mango e Zara e ben cinque McDonald’s visti dal corteo presidenziale (strade bloccate, sirene, spiegamento di forze mai viste). E monopattini e Glovo che sfrecciano mentre i passanti ci salutano con la mano, senza far troppo caso all’allarme aereo che suona di tanto in tanto come a ricordare che non tutto è proprio del tutto normale mentre il sole illumina le cupole dorate della città che vuole a tutti i costi rinascere. 

 

A fianco a tutto questo fulgore l’altra faccia cupa e  sinistra si vede in maniera devastante e brutale quando con Draghi e Macron e Scholz e il presidente romeno Iohannis (qui perché strategicamente fondamentale per consentire i transiti sul suo territorio) arriviamo a Irpin, che sembra già pronta a diventare un memoriale dell’Olocausto ucraino, tra palazzi bombardati e ponti abbattuti e distributori di benzina sventrati; nuovo memoriale europeo, mentre Draghi solo due giorni fa ha visitato quello ebraico, in Israele. E qui a Irpin sindaci e amministratori locali mostrano a lui e agli altri capi di stato e di governo l’orrore vero, gli interni delle case carbonizzate e le cucine coi vetri in frantumi e le parabole satellitari fuse in un fetore diffuso forse di carcasse d’animale che accresce l’idea di essere veramente all’inferno. Una cosa in particolare colpisce il premier, una macchina, scheletro di macchina, teatro di barbara uccisione di una madre con due bambini assassinati dentro. Draghi – non è scontato – si ferma allora nonostante le allucinanti misure di sicurezza (scorte e servizi e polizie e uniformi e mitra spianati di quattro nazionalità più il paese ospitante, che ti fanno schiantare d’ansia), Draghi si ferma dicevamo coi giornalisti (mentre nel volo sull’aereo di stato da Ciampino non si è fatto proprio vivo e sul treno nemmeno, solo buonanotte e buonasera con la sua voce agnellesca passando dopo le due ore di trilaterale ferroviario e bonario con Scholz e Macron nei corridoi mentre noi si è in pigiama). 

 

Però adesso il premier si ferma e parla per due minuti coi cronisti, un’eternità. Dice che due sono le cose da fare. Da una parte fermare la guerra. E qui la posizione è chiara, si sa chi è l’aggredito e chi è l’aggressore. Dall’altra ricostruire. E qui si dilunga, sulla ricostruzione, e dev’essere il suo modo di mostrare i sentimenti. Si entusiasma per un dettaglio, spiega che gli ucraini come sempre all’avanguardia hanno una specie di database degli edifici da ricostruire, case uffici palazzi. E’ entusiasta. E’ come se “l’atermico”, come è chiamato non solo per l’assenza del cappotto in guardaroba, si abbandonasse e utilizzasse questa “technicality” per dimostrare la sua commozione in un modo conciliabile col “never explain never complain”. Commozione pragmatica. Ricostruire. Edifici. Lo ha ribadito poi nel pratone del palazzo presidenziale di Kyiv, alla presenza di Zelensky, ma lì aveva già recuperato tutta la sua leggendaria atermia.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).