(foto di Andriano Sofri)

guerra che avanza

Mykolaïv, muro o porta dell'Ucraina

Adriano Sofri

Cronache dal fronte mobile che corre lungo le macerie di una città che potrebbe arginare o facilitare l’avanzata russa. Un’urgenza: mancano le munizioni, che ai russi invece sembrano non finire mai

Mykolaïv, dal nostro inviato. Mykolaïv è – era – una città di mezzo milione di persone, fra Odessa a ovest e Kherson a est. E’ molto più vicina a Kherson, 60 chilometri, che a Odessa, 130 chilometri, e la cosa vale ora una differenza strategica. Perché Kherson è stata la prima grande città a cadere in mano ai russi, e Mykolaïv è diventata per loro la porta per andare a Odessa, o il muro che ne fermerà e ricaccerà l’avanzata (vedi Zafesova, qui l’altro ieri). E’ già successo in aprile: le forze russe erano arrivate fin dentro la città, e poi ne sono state ricacciate. Sto percorrendo il viale lunghissimo e larghissimo che dal centro di Mykolaïv porta fuori città, a est: lo spazio che separa le due corsie è singolarmente spoglio di alberi. A guardare meglio, è costellato dai moncherini di tronchi di platani, segati pressoché raso terra. Innumerevoli grandi platani, sacrificati a costruire barricate alla marcia dei tank invasori.

 

A un certo punto, al centro dello spazio spartitraffico, c’è un monumento: il carro armato T-34, piazzato su un colossale piedistallo nero inclinato come una rampa, che il 28 marzo del 1944 entrò per primo a liberare la città dagli occupanti nazisti. Ironicamente, i miei accompagnatori mi mostrano il punto vicino in cui due tank russi sono stati fermati ora dai difensori della città, e i loro equipaggi annientati. Guerre e liberazioni hanno porte girevoli. Nel 1944, gli eroi della liberazione, un giorno prima dell’entrata del grosso dell’Armata rossa, furono 68 marinai al comando dell’ufficiale ucraino Konstantin Olshansky, paracadutati dietro le linee tedesche: ne sopravvissero, e feriti, solo 12.

 

I miei accompagnatori sono Mykola (il nome ucraino di Nikolaj, come nel nome della città, Mykolaïv-Nikolaiev) e suo figlio Andriy. 62 e 40 anni, sono così in forma che li si direbbe fratelli. Andriy conferma: quando incontravo una ragazza dicevo che era il mio fratello maggiore. Mykola, ingegnere, ora fa il maestro. Andriy aveva una grande fattoria verso Kherson, ha perso tutto, tranne uno dei suoi furgoni che ha messo a disposizione dell’esercito. Madre, moglie e figlia sono riparate in Germania, così i due sono rimasti soli e si muovono con la confidenza e la complicità che avrebbero un padre giovane e un bambino. Una coppia rock, scherzo: Led Zeppelin, dice Andriy – e Toto Cutugno, aggiunge per cortesia Mykola. Lui potrebbe andare all’estero, ma non ne ha nessuna voglia (gli uomini fra i 18 e i 60 sono tenuti a non espatriare, ma la mobilitazione è tutt’altro che completa. Una maggioranza resta a disposizione, sia perché non c’è bisogno delle sue competenze, sia perché non ci sono risorse sufficienti a equipaggiare armare e addestrare). Padre e figlio impiegano pressoché per intero il loro tempo da volontari dell’aiuto alla popolazione.

 

 

Visito con loro il centro del comune in cui si raccolgono e distribuiscono gli aiuti: vestiario, medicine, cibo. Di fronte c’è un centro analogo della Croce Rossa, e altri ne troveremo in città, distinti dalle lunghe file di persone. Ne ho viste persone così, anche in Italia negli ultimi anni, soprattutto ad Atene: che non erano povere e non erano destinate a esserlo, mescolate nella coda per la minestra ai veri poveri e ai clochard, impoverite, là dall’austerità, qui di colpo dai bombardamenti, dai quartieri distrutti ed evacuati. Anche dei veri poveri ci si vergogna, ma i veri poveri si vergognano meno: di questi, del loro pudore offeso, nelle fisionomie, nei modi, in qualche gioiello conservato, ci si vergogna diversamente.

 

Il centro, in un vasto cortile, era prima la sede di un’azienda elettronica, adesso le stanze sono divise per oggetti, continuamente accumulati e smaltiti. All’aperto scatoloni con mercanzie che le persone ordinatamente scelgono. Su uno è scritto grande, a mano: “COMISO”. Sappiate a Comiso che una signora di Mykolaïv sta provando le vostre magliette. Anche qui la storia si diverte con le giravolte: Comiso, la base missilistica dei Cruise nel 1981, la mobilitazione pacifista e antimilitarista – e la campagna per rifondere del danno economico, anche a mio nome Alex comprò qualche simbolico metro quadrato. Lo scorso aprile a Comiso c’è stata una manifestazione, chiara nella denuncia dell’aggressione russa. 40 anni prima si era trattato degli SS-20 sovietici: il Patto di Varsavia premeva verso ovest

 

Andiamo a visitare alcune case demolite dai missili. Una era vicina a un edificio in cui davvero si addestravano reclute, sono andati in frantumi i vetri delle finestre, ma è stata distrutta questa casa povera e innocente dall’altro lato della strada. Commentano sulla mira inefficiente, poi mi portano alle altre case in cui non c’era il pretesto di alcun bersaglio, solo il piacere di bombardare, ferire, uccidere. E’ un rito giornalistico obbligato e abbastanza inutile, questo della visita alle macerie – anche le macerie sono fotogeniche. Ma è vero che qualche dettaglio interviene a riscattarlo. Una vecchia pelliccia da signora nel mucchio di detriti. E gli alberi, in due giardini diversi i proiettili hanno preso in pieno gli alberi, un noce in uno, un ciliegio da visciole in un altro, un grosso ramo troncato è finito in strada, carico di frutti, sono buonissimi, aspri e dolci. “Ricostruiremo tutto”, ripete Andriy. Certo, ma sai quanto ci vuole a rifare un platano come questi?

 

A Odessa un tassista, esuberante, fumatore, mi aveva detto ridendo di lasciar stare la cintura: “Ucraina!”. Qui mi dicono lo stesso, ma: “Se ti sparano fai prima a scendere e scappare”. L’artiglieria russa, dicono, se la prende soprattutto con i villaggi, vuole fare terra bruciata e prepararsi la strada: una specie di terrorismo provinciale. Andiamo verso il paese di Shevchenkove, che è appena stato bombardato, mi mostrano foto di morti e feriti. Poi decidono che è troppo esposto, aspettano in un luogo convenuto in cui uno del paese si avventura a caricare il cibo e le cose di cui hanno bisogno, quello di oggi si chiama Sergiy, mezza età, rotondo, allegro, il contrario del viso cui dedicare un bassorilievo: hanno una gran considerazione di lui. Shevchenkove aveva 4.000 abitanti, dice, siamo rimasti in meno di 500.

 

La questione della linea del fronte (sono venuto sprovveduto di giubbotto ed elmetto) è, qui almeno, piuttosto confusa. Non c’è il corpo a corpo all’uscita dalle trincee. Lo scontro è soprattutto di artiglierie, dunque non c’è una linea ma una striscia mobile, una terra di nessuno, o di tutti e due – terra grigia, dicono – di due o tre decine di chilometri. Da parte russa si sta cercando di consolidare il terreno preso, e di minare, per sventare la controffensiva ucraina su Kherson. Da parte ucraina credo che davvero scarseggino le munizioni. La storia sulle armi date, ma ora smettiamo, è piuttosto enigmatica: a meno che si decida che va bene, la vostra figura l’avete fatta, ora basta. La Russia non finisce le munizioni, ne ha fatto una gran scorta. Quanto a scorta, sapete che proprio qui a Mykolaïv ha colpito e affondato il deposito del grano più grande dopo quello di Odessa. Ma torniamo alla linea del fuoco – le notizie militari competenti non le avrete da me, si capisce. E’ la questione dei furgoni: si piazza in un furgone, con due persone a bordo, il tubo di lancio con uno o più missili anticarro Javelin, si tira e si scappa via. A volte va, altre no, e il furgone viene tracciato e colpito, da terra o dal cielo. C’è un’attività di ricerca e acquisti di furgoni usati a prezzo scontato in Ucraina e fuori.

 

Una giovane donna di Kherson racconta l’ansia per i genitori restati. Dice delle telefonate: i russi (dico “i russi”, e si capisce che cosa intendo, non Prokofiev o le violiniste di Udine) hanno tagliato la rete ucraina, e per chiamare con la loro bisogna certificare la propria identità, così le persone usano le scuole – che hanno bisogno del wi-fi perché fanno lezione online – per telefonare anonimamente (tutte le scuole, università comprese, sono chiuse in Ucraina: il ministro della Cultura Alexander Tkachenko ha promesso che riapriranno il 1° settembre).

 

Preparandomi a venire, ho imparato che a Mykolaïv visse il piccolo Isaak Babel’, e nacquero, oltre al venerato ultimo rabbino Lubavitch, Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), e alla splendente modella, attrice e partigiana Assia Granatouroff (1911-1982), quel Paul Baran (1910-1964) che con Paul Sweezy, alla direzione della Monthly Review e con il libro sul “Capitale monopolistico”, fu tra i padri putativi del Sessantotto a suo modo marxista. Ebrei nati a Mykolaïv, e dei pochi a Mykolaïv non morti, perché andarono via in tempo. Anche qui la maggioranza parla russo. E ora c’è un doppio movimento: a passare all’ucraino per ripudiare la prepotenza, oppure a contestare l’appropriazione indebita del russo, che “non è dei russi, ma di tutti”. Un’incrinatura nell’idea che la patria sia la lingua. La lingua, come la patria, è di chi se ne renda degno, e la renda degna.

 

Torno a Odessa, a viaggio incassato, faccio più attenzione alla geografia, e ne vale la pena. Mykolaïv è un gran porto, quello cui fece capo la cantieristica e la Marina militare russa: ma è un porto fluviale, sul possente estuario del Bug meridionale, che da lì al mare ha ancora 65 chilometri da percorrere. Le sue rive sono deserte, poche pilotine e barche a vela ormeggiate davanti a un gran fabbricato che doveva essere il centro del diporto e che si chiama, indovinate, “Ushuaia”. L’acqua potabile manca a Mykolaïv, perché è stato colpito l’acquedotto da Kherson, ma l’acqua dolce abbonda tra qui e Odessa. Il confine fra le due regioni è segnato da un affluente del Bug, l’Inhul, che vi si allarga in una specie di laguna, riserva naturale dal 2002, paradiso di uccelli, piante, rocce e paesaggi di steppa, scampati all’agricoltura – e di ostriche. Tutto il resto sono campi a perdita d’occhio, già mietuti o appena spuntati, piani o lievemente ondulati, con tutte le gamme del giallo e del verde, interrotte solo da qualche assalto di papaveri.

 

Una magnifica geometria di colori, apparentemente deserta di umani, che sembra essersi fatta da sé e aspettare rassegnata la propria destinazione, il proprio destino, in un silos bersagliato di missili, o una chiacchierata fra Cavusoglu e Lavrov, e comunque lontano dall’Africa. A chi ancora si interroga sulla logica di Putin, si può mostrare questo colpo di mano. Colpo da creatore, così felice della contemplazione feriale da rinunciare anche alla tregua del settimo giorno. La guerra invidia la lentezza della fine del mondo, la morte di vecchiaia: vuole fare prima. E’ la vera vendetta sull’ecologia. Ah, e un’altra cosa. Ho visto il Mar Nero. Grande, spalancato, appena increspato. Non era vietato. E’ solo vietato nuotare.

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