Dottrine in disuso

I limiti della “responsabilità di proteggere” gli ucraini secondo i suoi stessi promotori

Paola Peduzzi

Di fronte all'aggressione russa la domanda del falco liberal Madeleine Albright è tornata di nuovo pressante: esiste un dovere di intervento umanitario? A guardare i commenti e le analisi dei sostenitori della dottrina interventista sembra prevalere uno spiccato realismo

Nel 2008, Madeleine Albright, ex segretario di stato americano morta mercoledì a 84 anni, pubblicò un suo articolo sul New York Times dal titolo: “La fine dell’interventismo”. Durante gli anni Novanta, la Albright era stata una grande promotrice della leadership americana nel mondo, in pace e soprattutto in guerra: da ambasciatrice all’Onu, fece pressioni per l’intervento americano nella guerra dei Balcani nel 1995 e ancora quattro anni dopo, da capo della diplomazia dell’Amministrazione Clinton, quando  il presidente serbo Slobodan Milosevic attaccò il Kosovo. Era un falco liberal, insomma, gran sostenitrice dell’interventismo umanitario. Per questo il suo articolo nel giugno del 2008 in cui spiegava perché quella dottrina era finita fece scalpore. Si concludeva così: “Al cuore del dibattito c’è la domanda su che cosa sia il sistema internazionale. E’ soltanto una collezione di dadi e bulloni legali fissati assieme dai governi per difendere i governi? O è un framework in trasformazione di regole fatte per rendere il mondo più umano?”. 

 

Di fronte all’aggressione russa all’Ucraina, la domanda è tornata di nuovo pressante – o forse per la Albright lo è sempre stata, considerando la  nota che scrisse dopo aver incontrato il presidente russo nel 2000: “Putin è piccolo e pallido, così freddo che potrebbe essere un rettile”. La domanda aggiornata alla crisi in realtà si sdoppia: c’è una catastrofe umanitaria in corso in Ucraina, esiste un dovere di intervento umanitario? E la scelta di non intervenire militarmente a sostegno di Kyiv contiene Putin dall’utilizzare armi non convenzionali o al contrario gli fa pensare di poter allargare il conflitto tanto nessuno farà niente? A guardare i commenti e le analisi dei sostenitori e promotori della dottrina interventista sembra prevalere un spiccato  realismo. 

 

Gareth Evans, uno degli architetti della dottrina “Responsabilità di proteggere” (R2P), cioè dell’interventismo umanitario (lui preferisce la prima dizione, che è la sua, perché la seconda ricorda le guerre degli anni Duemila, quelle controverse, in Afghanistan e Iraq), dice al Foglio che “la Russia sta certamente commettendo crimini atroci in Ucraina in flagrante contrasto con i princìpi della R2P che pure aveva sostenuto al World Summit del 2005 e in altre discussioni al Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Il problema però è, “come sempre, quello di tradurre questa analisi in una risposta efficace. Un intervento militare esterno sulla base dell’R2P dipende dalla sua legalità e dal voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che è impossibile da ottenere a causa del veto russo”. In pratica, e non dal punto di vista legale, dice Evans, “bisogna considerare il criterio della prudenza: quando una grande potenza vìola le regole, si apre un problema perenne. Ogni azione militare, in questo caso presumibilmente a guida Nato, scatenerebbe una guerra più ampia, aumenterebbero i morti e le sofferenze. E’ un dilemma senza soluzione, che anche io con altri architetti dell’R2P abbiamo segnalato fin dall’inizio: nei casi più difficili, questa dottrina ha dei limiti”. Evans si augura che il mix di sanzioni, sostegno militare e resistenza ucraina spingano infine Putin a negoziare un accordo, anche se non esclude “dolorose concessioni” da parte dell’Ucraina.

 

Il limite che indica Evans non è modesto: la responsabilità di proteggere vale nei confronti delle violazioni delle potenze piccole ma non delle grandi, che però come stiamo vedendo hanno la capacità di causare catastrofi di ampia portata. Che ne è allora della responsabilità? Una risposta invero mesta si trova nel memoir di Samantha Power, ora capo attivissimo dell’Agenzia americana per gli aiuti umanitari, e da sempre sostenitrice della R2P. In “Educazione di un’idealista”, che è la sua storia ma anche la storia della politica estera americana essendo lei stata un’allieva proprio della Albright, la Power evita di soffermarsi troppo sull’applicazione pratica dell’interventismo umanitario, proprio perché si è notevolmente modificata nel tempo. Nella parte dedicata all’Ucraina e alla Russia – il memoir è del 2019, quando ci fu l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbas lei era ambasciatrice all’Onu dell’Amministrazione Obama – di fatto la Powell, pur denunciando lo scempio di regole internazionali e umanità di Putin, difende la decisione del suo governo di non dare aiuti militari a Kyiv, un intervento comunque indiretto.

 

All’inizio di marzo, parlando al German Marshall Fund, la Powell ha spiegato come funziona ed è organizzato il sostegno umanitario all’Ucraina: non c’erano ancora state le bombe sugli ospedali, che lei definisce crimini di guerra, ma le intenzioni di Putin erano piuttosto chiare a tutti. In quella conversazione la Powell ha evitato di parlare di responsabilità di proteggere, che pure è la sua dottrina di riferimento, e a un certo punto ha spiegato, anche in linea con il suo ruolo odierno, che: “Come sempre nelle guerre la questione principale è l’accesso”. L’accesso degli aiuti, i corridoi umanitari per mettere in salvo le persone, cioè i principali obiettivi dell’esercito russo. Non scatta allora in questo caso, nel caso in cui venga colpito l’elemento più rilevante delle guerre, cioè l’accesso, la responsabilità di proteggere?

 

Il 23 febbraio, la vigilia dell’invasione, la Albright ha pubblicato un articolo battagliero in cui sosteneva che nel mondo moderno l’integrità territoriale di un paese non dipende da chi è lo stato confinante e che Putin si deve adattare a questo nuovo mondo. Diceva che questa crisi non sarebbe stata una partita di scacchi ma una partita di judo, in cui l’occidente avrebbe dovuto, con sanzioni e sostegno militare, far capire a Putin che non ci sarebbe stato nulla di conveniente per lui in una guerra. L’interventismo umanitario non era citato. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi