(foto EPA)

Guerra in Ucraina, i tre scudi che proteggono l'America

Stefano Cingolani

Dollaro, petrolio, geografia. Perché gli Usa resteranno comunque al riparo dal conflitto che sconvolge l’Europa

L’America? Un’immensa isola tra due oceani. La sua posizione sul mappamondo l’ha protetta a lungo dalle tragedie della storia moderna che hanno devastato l’Europa e l’Asia. L’attacco islamico dell’11 settembre 2001 ha fatto crollare il senso di inviolabilità che aveva cullato gli americani, ma è stata una drammatica parentesi, poi la geografia ha ripreso il sopravvento e con essa gli altri due scudi che ancor oggi proteggono il Nuovo continente dalla guerra in Ucraina, dall’imperialismo russo, dalla sfida cinese: il petrolio e soprattutto il dollaro. Scudi per sempre? Impossibile rispondere, ma quante volte si è detto che l’America aveva perso la propria invulnerabilità, a cominciare dall’arma più pervasiva e tutto sommato ancor oggi più efficace. Proprio da qui vogliamo cominciare.

La moneta del mondo. Correva l’anno 1960 quando Robert Triffin, il grande economista di origine belga, cominciò ad annunciare la fine del dollaro come valuta dominante. La sua critica in realtà riguardava l’intero sistema nato nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods i quali avevano creato un legame fisso del dollaro con l’oro (a 35 dollari l’oncia che equivale a circa 31 grammi) e di tutte le altre monete con quella americana. Secondo il “dilemma di Triffin” lo status di valuta internazionale finiva per entrare in contrasto con le esigenze nazionali: gli Usa stavano inondando il mondo di biglietti verdi per finanziare il loro crescente deficit nella bilancia dei pagamenti. Alla lunga questo sistema non poteva reggere. Quando nel 1971 Richard Nixon decise di svalutare il dollaro e spezzare per sempre il vincolo aureo, Triffin venne celebrato come un profeta. In realtà fece un favore a Milton Friedman e ai monetaristi secondo i quali la libera fluttuazione avrebbe fatto bene non solo alla valuta a stelle e strisce, ma alla economia mondiale.

Seguirono anni di instabilità, poi arrivò il big bang con la liberalizzazione dei mercati finanziari e tutti i capitali corsero a Wall Street. Da allora la quota del dollaro nelle riserve valutarie internazionali è diminuita dall’80 per cento nel 1975 al 63 per cento  attuale, anche se con alti e bassi: era scesa al 50 per cento nel 1987, è cresciuta ininterrottamente fino al 72 per cento nel 2000, prima che scoppiasse la bolla internet, poi ha avuto una serie di sussulti fino alla crac del 2008. Quando si parla di declino relativo, dunque, occorre metterlo in relazione ai cicli dell’economia, quelli brevi e quelli lunghi: con la crisi petrolifera, la svolta monetaria, la globalizzazione, il decennio terribile tra crollo finanziario e pandemia. E bisogna considerare anche la nascita dell’euro, che in questi vent’anni s’è fatto spazio a scapito della sterlina e dello stesso dollaro, raggiunge una quota del 20 per cento nelle riserve mondiali. 

Una minaccia allo strapotere del biglietto verde viene dalla Cina che, si dice, entro dieci anni avrà un prodotto interno lordo superiore a quello degli Stati Uniti. Attenti alle proiezioni troppo meccanicistiche, ma assumiamo che non subisca clamorose smentite la stima secondo la quale il peso dell’economia cinese nel mondo passerà al 22 per cento nel 2030. Dal 2016 il renminbi (moneta del popolo, o yuan) è entrato ufficialmente nel paniere del Fondo monetario internazionale, quindi è destinato ad avere un ruolo maggiore come mezzo di scambio e riserva di valore. L’Arabia Saudita ha annunciato proprio questa settimana che tratterà parte dei suoi affari petroliferi con la valuta cinese. E’ un segnale agli Stati Uniti perché Riad non sopporta le aperture diplomatiche di Biden a Teheran. Ma chi venderà ai sauditi gli aerei e i missili per tenere a bada l’Iran? La Cina che protegge la teocrazia khomeinista? Difficile credere che salti il patto stretto il 14 febbraio 1945 tra Franklin Delano Roosevelt e Ibn Saud a bordo dell’incrociatore USS Quincy, ormeggiato nel Grande Lago Amaro del Canale di Suez. Lo scambio tra armi e petrolio è stato vantaggioso per entrambi, ora che gli Usa possono fare a meno del greggio importato, i rapporti di forza si spostano a favore degli americani. Attenzione, insomma, a distinguere il teatro diplomatico dalle tendenze di fondo. Non solo. Affinché lo yuan diventi una valuta di rifugio, Pechino dovrà intraprendere una serie di riforme orientate all’apertura del mercato dei capitali e alla flessibilità del cambio, che implicano anche cambiamenti profondi difficili da affrontare per il regime e per il nuovo Mao.

Prima di scalzare il dollaro, il potenziale concorrente deve essere riconosciuto a livello mondiale come destinazione privilegiata per il capitale investito e deve offrire un sistema più efficace e più sicuro rispetto a quello statunitense per quanto riguarda i risparmi, i prestiti e la regolamentazione. Gli Stati Uniti, nel loro complesso, risparmiano troppo poco e spendono troppo, è vero, però i denari di tutto il mondo convergono verso gli Usa attraverso investimenti in titoli del Tesoro, obbligazioni societarie e azioni di aziende leader che dominano Wall Street e il mercato globale. Ciò crea un sovrappiù di capitale, immagine speculare rispetto al deficit delle partite correnti. Secondo le stime della Banca dei regolamenti internazionali, prima della pandemia le banche non americane detenevano 13 mila miliardi di debiti denominati in dollari statunitensi. La Cina possiede riserve in dollari americani per oltre tremila miliardi, in quale valuta le convertirà? Quanto all’oro, è un bene rifugio il cui valore resta calcolato in dollari.   

C’è un baco che mina questa sicurezza, anzi una talpa che ha scavato a lungo e adesso esce allo scoperto, il suo nome è inflazione. La Federal Reserve, la Banca centrale americana, ha davanti a sé un dilemma che per il momento si è rivelato insanabile: piegare l’inflazione senza provocare una recessione. Jay Powell si è mosso con i piedi di piombo riducendo l’acquisto di titoli e rincarando il costo del denaro, ma viene tirato in opposte direzioni. Ora ha aumentato gli interessi per la prima volta dal 2018, altri incrementi seguiranno fino ad arrivare all’obiettivo del 2 per cento entro la fine dell’anno, l’inflazione intanto supera il 7 per cento. Di fronte alla guerra e a un default della Russia stringere troppo sarebbe un errore, ma far correre i prezzi è forse anche peggio. E qui un ruolo importante spetta al mercato del petrolio e del gas.

Energia a stelle e strisce. Nel 2019 gli Stati Uniti hanno prodotto più energia primaria di quanta ne hanno consumata: non succedeva dal 1957. Nel 2020, per la prima volta dal 1952, hanno anche esportato più petrolio di quanto ne abbiano importato. E sono pure i primi produttori al mondo di greggio. Il predominio degli sceicchi è finito e il ricatto russo s’è indebolito. Anche il Congresso americano ha aperto le frontiere alle esportazioni prendendo atto che gli Stati Uniti avevano raggiunto l’indipendenza energetica. Una lunga strada. All’inizio del Secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti producevano oltre il 60 per cento del petrolio globale. Il settore militare e l’economia del Giappone e della Germania dipendevano dalle importazioni di petrolio americano.

La capacità statunitense di rifornire i propri alleati e di limitare l’accesso a questa risorsa da parte dei giapponesi e dei tedeschi sono stati fondamentali per vincere la guerra. Gli Stati Uniti, insomma, dominavano il settore energetico; trent’anni dopo il loro ruolo pressoché esclusivo era ormai un ricordo e l’embargo del petrolio arabo del 1973-74 fu un enorme shock. Da quel momento tutti i presidenti americani hanno cercato di tornare all’autosufficienza e si sono impegnati a porre fine alla dipendenza del paese dalle importazioni provenienti da regioni instabili come il medio oiente, per non parlare della Russia. Alla radice di questa scelta ci sono senza dubbio valutazioni politiche e strategiche, però non avrebbero avuto successo senza una vera e propria rivoluzione tecnologica che ha messo a frutto la frattura idraulica delle rocce e la perforazione orizzontale. Ancora nel 2005 gli Usa coprivano con le importazioni il 30 per cento del loro fabbisogno energetico, il balzo dunque è recente e davvero impressionante. Ma l’America del Nord (perché anche il Canada ha tratto gran vantaggio dalla rivoluzione del fracking) è davvero indipendente e fino a che punto? 

L’Amministrazione Trump ha varato nel 2017 un programma ambizioso, illustrato in modo completo nel documento sulla strategia per la sicurezza nazionale. Si parte sottolineando “la posizione centrale dell’America nel sistema energetico globale in quanto tra i principali produttori, consumatori e innovatori” e si sostiene che gli Usa “aiuteranno gli alleati e i partner a opporsi con maggiore resilienza a coloro che usano l’energia come strumento di coercizione”. L’ordine energetico globale non poteva più essere imperniato sull’Opec e sulla Russia, gli Stati Uniti dovevano riprendere la loro leadership. E la Cina? Pechino ha un ruolo chiave nei pannelli solari fotovoltaici e nelle turbine eoliche e punta chiaramente a controllare i mercati delle batterie e dei veicoli elettrici. “Gli Stati Uniti hanno forse intenzione di dipendere dalla Cina per le tecnologie energetiche fondamentali del futuro come ora dipendono dall’Opec? Se vogliamo veramente imporre la nostra supremazia dobbiamo diventare leader anche nel campo delle energie pulite”, spiega Douglas Hengel diplomatico, ex capo missione all’ambasciata americana di Roma, ora docente alla Johns Hopkins. Trump ha cercato di rilanciare il carbone e il nucleare, due fonti tipicamente interne, mentre il presidente Biden vuole potenziare le fonti rinnovabili pur senza le fughe in avanti dell’Unione europea. Gli Stati Uniti non consumano solo il petrolio estratto in casa, ne importano dal Canada e dal Messico, ma anche dall’Arabia saudita e dall’Iraq, dipende dall’andamento dei prezzi e dalla qualità del greggio (quello del Golfo Persico è meno caro e meno oleoso). Come reazione alle sanzioni alla Russia dalla quale gli Usa non comprano più greggio, Biden ha chiesto un aumento della produzione persino al Venezuela, mentre cerca di convincere il Qatar a rimpiazzare con gas liquefatto il metano che arriva dalla Siberia. Harold Hamm, presidente dell’Institute for American Energy, ha messo in guardia sul Wall Street Journal dagli effetti negativi di quella che chiama “la guerra di Biden contro il petrolio” che sta gonfiando i prezzi della benzina. “L’industria è pronta a collaborare”, sottolinea, “purché non venga mesa fuori mercato”. Insomma, anche il secondo scudo non è impenetrabile, deve essere tenuto sempre alto e in perfetta efficienza.

L’isola che non c’è. E’ vero che il continente americano si sente protetto dagli immensi mari che lo circondano, ma fino a che punto? Il terrorismo islamico ha messo in discussione l’antica sicurezza e oggi la sfida cinese apre scenari inediti. Gli Stati Uniti non sono minacciati direttamente dalla Russia a meno che Vladimir Putin non ricorra ai missili transcontinentali. Non è così per la Cina e l’Oceano pacifico in tutta la sua vastità lambisce le coste americane. Le Hawaii sono territorio degli Usa che hanno le loro basi militari in Giappone, Corea del sud, nell’isola di Guam in Micronesia. La supremazia della marina a stelle e strisce viene insidiata dal riarmo cinese e in questi anni è maturata nei pensatoi della politica estera la dottrina del doppio contenimento. George Kennan nel 1946 con il suo lungo telegramma da Mosca e poi un anno dopo con un articolo su Foreign Affairs mise a punto quella che sarebbe rimasta la strategia americana fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989: contenere l’espansionismo sovietico nelle aree di importanza strategica per gli Stati Uniti che, a poco a poco, hanno occupato l’intero pianeta. Pechino attraversa serie difficoltà reputazionali ed economiche dopo l’esplodere del Covid-19, per salvare la Borsa e le principali imprese sta stampando una gran quantità di moneta, tuttavia non cambia la sua strategia di lungo periodo: diventare una grande potenza rivale degli Stati Uniti. Quindi è necessario muoversi su un doppio binario, mentre l’arroganza e le ambizioni crescenti di Putin impongono di non mollare il fronte europeo che fino all’annessione della Crimea sembrava meno prioritario. 

Il ritorno al containment è l’opzione migliore per l’Occidente anche secondo Ivo H. Daalder presidente del Chicago Council on Global affairs. L’obiettivo fondamentale rimarrà lo stesso: contrastare le mire imperiali di Mosca, far pagare un prezzo alto al regime per le sue azioni e incoraggiare un cambiamento interno che porti al crollo definitivo di Putin e del putinismo. Ci vorrà tempo e bisogna impedire che Pechino offra una via di fuga, tuttavia la Russia oggi è meno potente dell’Urss: ormai vicina al default finanziario, la sua economia dipende solo dalle esportazioni di idrocarburi, è più piccola di quella canadese, che ha un quarto della popolazione russa, soffre di un duraturo ristagno demografico, con un’aspettativa di vita inferiore di dieci anni a quella americana ed europea sia per le donne sia per gli uomini, quanto alle sue forze armate, non sono nemmeno l’ombra dell’Armata rossa. Gli Stati Uniti, invece, mantengono un complesso militar-industriale senza rivali e hanno un’economia tredici volte più grande.

La stessa Europa un tempo divisa e in parte occupata dall’Unione sovietica, è emersa come un gigante economico coeso con un esercito che, sebbene ancora sotto finanziato, gode di capacità moderne. Non è escluso che l’invasione dell’Ucraina si trasformi in una disfatta militare russa, in ogni caso il neo contenimento, se applicato con costanza dovrebbe produrre una vittoria politica euro-americana nell’arco di cinque-dieci anni, secondo Daalder. Sono in grado gli Usa di svolgere questo ruolo con la pazienza e la determinazione necessarie? Nulla è scontato, anche lo scudo geografico può cadere, tutto dipende dalla lungimiranza di scelte come quelle che Kennan suggerì e Harry Truman ebbe il coraggio e la responsabilità di compiere, dal piano Marshall sino all’ombrello della Nato sotto il quale persino un comunista italiano come Enrico Berlinguer si sentiva più sicuro.

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