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L'Ucraina non è antisemita

Francesco M. Cataluccio

La stessa propaganda che parla di Putin “accerchiato” puntualmente dice che gli ucraini non meritano solidarietà perché nazionalisti e contro gli ebrei. Cenni storico-letterari per smontare questi miti 

In questi giorni di giochi di guerra attorno all’Ucraina, oltre a leggere su alcuni giornali e nel web molte voci di comprensione verso l’“accerchiato” Vladimir Putin (che intanto, sempre col pretesto degli “aiuti”, si è preso il totale controllo della Bielorussia e del Kazakistan), ci è toccato anche sentire che gli ucraini non meriterebbero solidarietà perché sono “nazionalisti e antisemiti”. A parte il fatto che ogni generalizzazione è sempre sbagliata, soprattutto se viene ripetuta con gli stessi argomenti (in rete viene puntualmente mostrata una foto di una decina di decerebrati che sventolano una bandiera con la svastica), la grande maggioranza degli ucraini, per la sua drammatica storia, non merita di essere semplicisticamente definita così (come ha ribadito pochi giorni fa anche Rav Jonathan Markowitz, rabbino della Comunità ebraica di Kiev). La realtà della questione ucraino-russa va letta nella  sua complessità, con radici e intrecci storici che non possono essere ignorati.

“Poco fa dormivo e ho sognato Kiev, volti noti e cari, che suonavano il piano... Ritorneranno i vecchi tempi? Il presente è tale che vivo senza farci caso... non vedere, non sentire (…) La follia di questi ultimi due anni ci ha spinto su una strada tremenda in cui non c’è tempo di fermarsi, di riprendere fiato. Abbiamo cominciato a bere il calice del castigo e lo berremo fino in fondo”: così scriveva, nel 1919, durante la guerra civile, il medico e scrittore ucraino Michail Bulgakov, uno dei più grandi della letteratura russa del Novecento, autore, tra l’altro, del magnifico romanzo postumo “Il Maestro e Margherita” (1966), la più graffiante rappresentazione del fallimento dell’esperienza sovietica.


La Russia nasce dall’Ucraina: la cosiddetta Rus’ di Kiev fu il più antico stato monarchico slavo orientale 


Terra storicamente disgraziata è l’Ucraina, stretta tra la Russia e la Polonia: un miscuglio talmente confuso, violento ma anche virtuoso, di popoli e lingue da rendere difficile definire dei confini certi. La Russia nasce dall’Ucraina: la cosiddetta Rus’ di Kiev, sorta verso la fine del IX secolo, fu il più antico stato monarchico slavo orientale che si estendeva nel territorio delle odierne Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. La sua fine avvenne quando, nel 1240, Kiev fu rasa al suolo dai conquistatori tataro-mongoli (che spadroneggiarono in quei vasti territori fino al XV secolo, come mostrò efficacemente Andrej Tarkovskij nel film “Andrej Rublëv”). La religione greco-ortodossa giocò un grande ruolo nell’avvicinamento tra i feudatari  ucraini e russi (i moscoviti erano gli esattori per conto dell’Orda d’Oro tartaro-mongola). Nel 1328 il metropolita greco-ortodosso di Kiev abbandonò la sua sede, ormai decaduta, e si trasferì a Mosca, che divenne il centro religioso del paese. Nel 1277 Daniele, figlio di Aleksander Nevskij, fondò la dinastia dei principi di Mosca e nel 1380 il principe Dimitrij affrontò i tartari, e li sconfisse al Campo delle quaglie (Kulikovo). Il fondatore dello stato russo fu il principe di Mosca Ivan III Vasil’evic detto il Grande (1462-1505), che sposando nel 1472 la nipote dell’ultimo imperatore bizantino, Sofia, diede inizio al mito imperialista (tanto caro anche agli odierni nazionalisti russi) della “Terza Roma”. Secondo tale mito la Russia sarebbe stata l’erede della civiltà romano-bizantina e, in nome di ciò, avrebbe dovuto conquistarsi l’Europa e un pezzo di mondo.

L’Ucraina nel frattempo era diventata dominio dei polacchi, padroni delle terre, che importarono un gran numero di ebrei, impiegandoli come gestori delle loro proprietà. Fu così che gli ebrei si trovarono ben presto in mezzo al conflitto tra contadini ucraini, appoggiati dai russi, e nobiltà polacca. Nella lotta sanguinosa tra ucraini e polacchi, gli ebrei furono sempre dalla parte dei signori polacchi e quindi costantemente oggetto di manifestazioni ostili da parte dei contadini ucraini e dei cosacchi. Il re Sigismondo I, Granduca di Polonia e Lituania (1506-1548) e il suo successore, Sigismondo Augusto (1548-1572), protessero gli ebrei, garantendo loro eguali diritti e la possibilità di insediarsi liberamente. Ma fu Sigismondo III (1587-1632) che, nel mezzo del conflitto religioso tra Uniati (appoggiati dalla chiesa cattolica) e Ortodossi, per garantirsi l’appoggio delle popolazioni locali, proibì, nel 1619, agli ebrei di risiedere a Kiev concedendo loro di recarvisi temporaneamente soltanto nei giorni di mercato e di fiere. La situazione peggiorò tragicamente in seguito alle rivolte dei servi della gleba ucraini contro la Confederazione polacco-lituana, guidati dall’atamano cosacco Bohdàn Chmel’nitskij (1596-1657), e alla Guerra russo-polacca (1654-1667), detta Guerra di Ucraina, che si concluse con una significativa espansione territoriale russa e segnò l’inizio della sua grande potenza. Bohdàn Chmel’nitskij ottenne sin dall’inizio un importante aiuto da Alessio I di Russia in cambio della sua alleanza, sancita, nel 1654, dal Trattato di Perejaslav (per festeggiare degnamente il suo trecentesimo anniversario, nel 1954, l’allora segretario del Pcus, Nikita Krusciov, regalò all’Ucraina la penisola di Crimea che, nel 2014, i russi si sono ripresa). 


Nel 1941 arrivarono i tedeschi, accolti all’inizio come liberatori. Un milione di ebrei furono assassinati  


I cosacchi, nell’immaginario polacco e russo, divennero sinonimo di ucraini. Per capire cosa fossero i cosacchi basta leggersi “Taràs Bul’ba” (1835) di Nikolàj Gogol’. I suoi eroi combattono contro i polacchi, i tartari, i turchi, gli ebrei e i cattolici, nemici del cristianesimo ortodosso della grande madre Russia, e hanno una ferocia barbarica che si manterrà immutata fino alle imprese della leggendaria Armata a cavallo (1926) di Isaac Babel’ e anche un po’ dopo. Le fruste, come le sciabole, erano le loro armi preferite. Per Gogol’, il cosacchismo era “il vasto irresistibile slancio della natura russa”. Nel suo romanzo, alcuni bambini vengono infilzati nelle lance e gettati con le donne nelle case in fiamme. 

La svolta tragica per il destino degli ebrei nell’Impero russo fu conseguenza dell’attentato che costò la vita, a San Pietroburgo, allo zar Alessando II Romanov (il 13 marzo del 1881, proprio il giorno della firma del Decreto di soppressione delle lingue non russe), a opera di un gruppo di terroristi legati al movimento populista della “Narodnaja Volja” (la volontà del popolo). Con la scusa che tra gli autori dell’attentato c’era una ragazza ebrea (Hesia Helfman), iniziarono allora i primi pogrómy (persecuzioni) di massa, incoraggiati dalle autorità russe. Il luogo dove si scatenò, sin dall’aprile di quell’anno, la furia più selvaggia e sanguinaria fu proprio Kiev e la sua provincia. Anche per questo, a partire dal 1897, alcuni ebrei iniziarono ad abbracciare la causa sionista e a immaginare il loro futuro fuori dall’“inferno russo”. Molti intrapresero la difficile strada dell’emigrazione verso l’America. 

In seguito alla Rivoluzione, nel 1921, l’Ucraina venne incorporata nella Repubblica socialista ucraina. E subito, nel 1922, nella regione ci fu la prima terribile carestia. Ma non fu nulla rispetto a quella che accadde dieci anni dopo. Gli ucraini, essendo milioni di piccoli contadini, religiosi e nazionalisti, non erano considerati dai russi “affidabili”, mostrando di andare in direzione opposta ai piani sovietici. Allora i bolscevichi misero in piedi un programma di collettivizzazione forzata che si spinse ad affamare un’intera popolazione. “Holodomor” (che deriva dall’espressione ucraina moryty holodom, che significa “infliggere la morte attraverso la fame”), è il nome attribuito alla carestia, non generata da cause naturali, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò circa 7 milioni di morti. O anche di più. Ci sono le testimonianze di qualche osservatore straniero, come il console italiano a Kharkov, Sergio Gradenigo, che nei suoi rapporti diplomatici sostenne di aver saputo da rappresentanti del governo che i morti erano 9 milioni. Una strage: è stata definita “genocidio”. La descrizione della fame contadina che fa, nel 1956, l’autore del capolavoro postumo “Vita e destino” (1970), l’originario ucraino Vasilij Grossman, è terribile: “A certi invece dava di volta il cervello, non si calmavano fino alla fine. Li riconoscevi dagli occhi, lucidi. Erano loro quelli che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. Si risvegliava in loro la belva, quando l’uomo moriva. Ho veduto una donna, l’avevano portata sotto scorta al centro distrettuale. Il suo viso era di un essere umano, ma aveva gli occhi di un lupo. Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non erano loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli [...] E’ per il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto”. E Igort, uno dei migliori autori e divulgatori del graphic novel italiano, è riuscito a raccontare l’Ucraina nel Novecento con grande efficacia nel suo “Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’Urss” (2010). Poi arrivarono, nel 1941, i tedeschi che inizialmente furono accolti da gran parte della popolazione come dei liberatori. Fu  invece la devastazione finale dell’Ucraina, con un milione di ebrei assassinati dalle Einsatzgruppen, dalla Wehrmacht e dai collaborazionisti ucraini inquadrati nella milizia. Nella sola Odessa furono massacrati 50 mila ebrei; nel fossato di Babij Jar, tra il 29 e il 30 settembre sempre del 1941, furono ammazzati 33.771 ebrei di Kiev (e per molti anni non ci fu nemmeno una lapide commemorativa, come ricordarono il poeta russo-ucraino Evgenji Evtušenko e il compositore Dmitrij Šciostakovic, con la sua Tredicesima Sinfonia, 1962). 


La Russia ha vissuto malissimo l’indipendenza, molto più del distacco delle altre nazioni sovietiche


Alla fine della guerra, l’Ucraina contò 4 milioni e mezzo di morti e 2 milioni di deportati come schiavi (200 mila rimasero in occidente). Se a essi si aggiungono i 7 milioni di morti tra deportazioni, fucilazioni e fame (Holodomor), si ha un quadro del numero enorme di vite che furono spezzate in quella regione. Dopo la guerra mondiale, nelle foreste dell’Ucraina si protrasse fino al 1950 una strisciante, e violenta, guerra condotta dall’esercito e le forze di sicurezza sovietiche contro le formazioni indipendentiste clandestine dell’Upa, l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (il cui capo era Stepan Bandera, assassinato nel 1959 a Monaco di Baviera da sicari di Mosca), guidata dal generale antisemita Roman Shukhevich (1907-1950). 

Nonostante che molti dirigenti del Pcus, a cominciare da Nikita Krusciov a Leoníd Bréžnev, fossero ucraini o molti legati a essa, anche dopo la destalinizzazione continuò un rapporto di sfruttamento sconsiderato di quella terra nera che potenzialmente potrebbe essere il “granaio d’Europa” e un’industrializzazione senza regole e sicurezze (di cui la tragedia della centrale atomica di Chernobyl’, il 26 aprile del 1986, è stata la catastrofica punta dell’iceberg: nel film intervista, del 2018, del regista tedesco Werner Herzog, Gorbaciov dichiara solennemente che “la fine dell’’Urss è iniziata con Chernobyl’”).

La Russia ha vissuto malissimo l’indipendenza dell’Ucraina, molto più del distacco delle altre nazioni sovietiche. Anche là, come per esempio in Lettonia, è rimasta una considerevole comunità russofona che si è sentita abbandonata e discriminata. In una conversazione telefonica del 1° dicembre 1991, giorno del referendum sull’indipendenza dell’Ucraina, riportata nel diario del principale consigliere di politica estera dell’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, Anatolij Cernjaev si leggono in filigrana tutti i problemi che sono riemersi oggi: “[George Bush] passò al tema dell’Ucraina. A lungo spiegò la sua posizione… M.S. [Mikhail Sergevic Gorbaciov], a sua volta, gli ripeteva la sua concezione: ‘L’indipendenza non è la separazione’, e la separazione è ‘Yugoslavia’ al quadrato, al decimo grado! Bush era molto prudente, ha assicurato due volte che non avrebbe fatto nulla che potesse mettere ‘Michael’ [Gorbaciov] e il ‘Centro’ [il governo dell’Unione sovietica] in una situazione imbarazzante. Una volta ha perfino detto: ‘Ostacolerebbe il processo di riunificazione dell’Unione’. Era evidente (ha detto che avrebbe telefonato anche a Eltsin) che lo preoccupava particolarmente la possibilità di ‘processi violenti’ a causa della Crimea, del Donbass… L’accenno di M.S. a questo problema è stato accompagnato dalla replica di James Baker (lui, Scowcroft e Hewitt erano a dei telefoni paralleli): sì, sì, è molto pericoloso… Evidente: Baker è più libero nei giudizi, meno soggetto alla pressione di lobbisti, più aperto! E’ finita con Bush che ha augurato a Michael successo nell’opera molto difficile ‘della riunificazione’” (da: “Limes”, n. 4, 2014). 


Nel 2014 all’Euromaidan c’erano molte anime: anche i nazionalisti, certo. Mosca ha così aizzato i russofoni


Il difficile assestamento dell’economia postsovietica ha ulteriormente impoverito le campagne (in certe zone del sud dell’Ucraina si assiste al crescente fenomeno di donne che lasciano le famiglie e vanno a lavorare all’estero, mantenendo mariti disoccupati o non interessati a lavorare e dediti spesso all’alcolismo), arricchendo pochi magnati (esattamente come in Russia), ingigantendo la corruzione, dando sempre più spazio a investimenti dall’estero di dubbia natura. Le  manifestazioni pro europee, dette Euromaidan, iniziate a Kiev nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, all’indomani della sospensione da parte del governo dell’accordo per una Zona di libero scambio globale e approfondito (Dcfta) tra Ucraina e l’Unione europea, hanno mutato ulteriormente la situazione. In particolare il 30 novembre 2013, ci fu un’escalation di violenza a seguito dall’attacco delle forze governative contro i manifestanti. Le proteste sfociarono nella cosiddetta  “rivoluzione ucraina” del 2014 e, infine, alla fuga e alla messa in stato di accusa del presidente filorusso Viktor Yanukovych. Come sempre accade, in quella piazza c’erano varie anime: molti giovani che chiedevano un vero cambiamento della vita politica; intellettuali e professionisti stanchi della crescente corruzione; nazionalisti che pretendevano una maggiore indipendenza della Russia; gruppi paramilitari di destra. La propaganda, anche in occidente, ha fatto di ogni erba un fascio. E la Russia ha soffiato sul fuoco aizzando i russofoni nella parte orientale del paese, dove ci sono le grandi industrie minerarie e una classe lavoratrice tutto sommato meglio retribuita rispetto ai lavoratori nelle campagne. In quelle regioni (Donetsk e Lugansk, nel Donbass, che ora la Camera bassa russa, Duma, ha appena riconosciuto come autoproclamate repubbliche popolari, filorusse e quindi “intoccabili” nel loro desiderio di riunirsi alla madrepatria) è iniziata una guerriglia definita eufemisticamente  a “bassa intensità”, con la partecipazione di mercenari ed elementi delle truppe speciali russe, che potrebbe costituire in ogni momento l’occasione di un intervento dello truppe di Mosca. Hanno purtroppo ragione gli ucraini intervistati, in queste settimane, per strada: “La guerra c’è già e dura da otto anni”.

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