Michail Aleksandrovic Vrubel, Il demone seduto nel giardino (1890). Galleria Tretjakov (da Wikipedia)

Grandi demoni di madre Russia

Francesco M. Cataluccio

La letteratura (anche quella sovietica) ce li presenta in tutte le forme. Spesso sono buffi spiritelli, innocui e dispettosi. Da Gogol’ a Bulgakov, passando per Dostoevskij e Lermontov. Un’antologia tra sacro e profano

Secondo la religione ortodossa il Purgatorio non esiste, ma esistono soltanto il Paradiso e l’Inferno: “Questa mancanza, anziché semplificare le cose, le complica, poiché la questione delle anime non può essere ridotta a una faccenda di promossi e bocciati; l’Inferno, per gli ortodossi, assolve pertanto una doppia funzione: è da una parte, il luogo classico di dannazione e sofferenza, ma, dall’altra, è o può essere un luogo di transito e di speranza: un Purgatorio fiammeggiante dove le anime attendono l’ascesa al Paradiso”. Lo sostiene lo scrittore e traduttore dal russo Andrea Tarabbia (autore, tra l’altro, nel 2011, de Il demone di Beslan, sul massacro del 2004 nella scuola dell’Ossezia del nord) nell’introduzione alla bella e utile antologia Racconti di demoni russi, recentemente pubblicata dal Saggiatore.

 

La cultura russa, come quella germanica, ha tradizionalmente puntato al Sublime e per questo ha conosciuto, a volte, l’Abisso. Cercando di realizzare il Sublime, nel fallimento ha incontrato il Diavolo. Il mito di Mefistofele, raccontato da Goethe nel Faust, ha funzionato benissimo in Russia, per un’affine sensibilità che porta a considerare anche positivamente il Diavolo. “Dunque tu chi sei?”, chiede Faust a Mefistofele. E ottiene questa risposta: “Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. E non casualmente questa citazione fu scelta da Michail A. Bulgakov come esergo al suo Il Maestro e Margherita.

 

Gli innumerevoli demoni e i diavoli nella letteratura russa e sovietica, non sono quindi sempre esseri completamente malvagi: a volte sono spiritelli, demonietti innocui, dispettosi e persino buffi. Questo perché, come mostra Tarabbia, in ambito ortodosso non sempre la possessione demoniaca è vista come una maledizione e una dannazione: può essere soltanto una punizione con fini di redenzione.

 

I demonietti de Le veglie alla masseria presso Dikan’ka (1836) di Nikolàj Vasìl’evičc Gogol’, ad esempio, sono la rappresentazione letteraria del demonismo della cultura popolare contadina, soprattutto ucraina. I demoni romantici, pur essendo anch’essi reminiscenza della letteratura fiabesca, si sono arricchiti di tratti religiosi che possono mescolarsi con aspirazioni libertarie, se non addirittura socio-politiche. Demoniache sono anche le figure che animano e infestano la storia gogoliana del Vij (1833), ambientato a pochi chilometri da Chernobyl, in un villaggio dove Chomà Brut, bel giovane con una grande voglia di vivere, seminarista e studente di filosofia a Kiev, incappa in una strega che giocando con lui morirà, trasformandosi in una bella fanciulla. Costretto dal padre di lei a vegliare in chiesa la sua salma, riesce con l’aiuto delle sue preghiere a tenere a bada le forze malefiche che, durante la notte, si scatenano nella chiesa. Ma l’ultima gli è fatale: infatti in aiuto degli spiriti interviene l’orrendo Vij, il re degli gnomi, che lo farà crepare per la paura…

 

Gogol’ è riuscito a far entrare l’indicibile nell’ordinario: prende dei personaggi-tipo, solitamente degli impiegati di basso rango, e li mette a confronto con personificazioni del potere dalle sembianze demoniache. Ma è Il demone di Michail Jurevicč Lermontov (1814-1841) l’archetipo di tutti i diavoli della letteratura russa. Composto nel 1838, durante l’esilio nel Caucaso, ha come protagonista un demone che risiede sulla Terra, orgoglioso per la sua potenza, ma triste per non poter amare. Quando scorge la principessa georgiana Tamara che attende l’arrivo del promesso sposo per convolare a nozze, si innamora di lei e fa sì che il fidanzato venga ucciso. Tamara si chiude per il dolore in un monastero sulle montagne del Caucaso. Il demone seduce la ragazza con la sua eloquenza; poi la uccide con un suo bacio di morte. Gli angeli accolgono l’anima di Tamara, mentre il demone rimane come prima: solo, orgoglioso e senza amore.

 

La connotazione del poemetto è principalmente laica, e non religiosa: in nessun punto dell’opera si dice che il demone coincida con il Diavolo. Il demone lermontoviano è uno spirito “triste” a cui “il male diventò noioso” “e tutto quello che vedeva, lo disprezzava, oppur lo odiava”. Nel dialogo che avrà con Tamara, si descrive con queste parole: “per sé solo vivere, e nella noia, / e in questa lotta senza mai vittoria, / In questa lotta senza mai la pace!/ (…) Per me divenne il mondo e muto e sordo”. Appare come un personaggio rassegnato al male e alla solitudine, più che un’incarnazione del Male.

 

Ma la solitudine vera è quella nella quale Dio ha lasciato gli uomini. Emblematico è l’episodio del guardiano (vv. 890-917), al quale pare di udire dei suoni provenire dall’interno della cella di Tamara, ma sceglie di non fermarsi a controllare, e di passare oltre dopo aver detto una preghiera ed essersi fatto il segno della croce. Questo gesto esemplifica l’indifferenza divina per ciò che sta avvenendo, la sostanziale solitudine degli esseri umani, come era stato anticipato alcuni versi prima dal Demone, durante il suo dialogo con Tamara; alla domanda della fanciulla su Dio, egli aveva replicato: “Non ci degna nemmeno d’uno sguardo. / Il cielo gl’interessa, non la terra!”.

 

Il sogno di libertà dello spirito e la certezza dell’espiazione per tale ambizione, in questo mondo inadatto alla libertà (ci troviamo nell’epoca del cupo dispotismo di Nicola I), legano Il demone di Lermontov, al Faust di Goethe, come anche al Paradiso perduto (1667) di John Milton e Cielo e terra (1822) di George Gordon Byron. Assai complesso è il demonismo di Fëdor Michajlovičc Dostoevskij, anche se, ad esempio, in un romanzo come I demoni (1871), che sarebbero i terroristi (“quella gioventù che ha perso il contatto con la realtà, e vive nella bestemmia macchiandosi di delitti contro le leggi di Dio”), sono i principii socio-politici del nichilismo russo ad avere ispirato quel titolo. Ne I fratelli Karamazov (1880) Dostoevskij si riallaccia alla tematica esistenziale e politica de I demoni. Ivan però, a differenza di Stavrogin, è alla fine un buono e un giusto, uno che odia il Male e ama l’umanità, e la cui unica colpa, una grande colpa teologica agli occhi di Dostoevskij, è quella di faticare a riconoscere la presenza di Dio in un mondo in cui i bambini soffrono (lettera a N. A. Ljubimov, del maggio del 1879: “Il mio protagonista prende un tema secondo me inoppugnabile, l’assurdità della sofferenza dei bambini, e ne deduce l’assurdità di tutta la realtà storica”). Ivan sbaglia nel pensare che si possa cambiare il mondo e renderlo felice, prescindendo dalla fede in Dio, cioè, secondo una tipica identificazione dostoevskiana, dalla libertà dell’uomo.

 

E poi c’è il dialogo notturno tra Ivan e Satana: “Era un signore o, per meglio dire, una specie di gentleman russo, non più giovane (…) con un po’ di brina nei capelli scuri, tuttora abbastanza lunghi e folti, e nella barbetta tagliata a punta…”, cosi inizia la descrizione che ne fa Dostoevskij. Del resto, precedentemente, discutendo con Aljoša, Ivan aveva detto: “Io penso che, se il diavolo non esiste e quindi è stato creato dall’uomo, questi l’ha creato a propria immagine e somiglianza”. Anche per questo, è un tipo, ovviamente terribile, ma dotato di buon senso, simpatico e spiritoso (“Per arrivare sulla vostra terra, dovevo attraversare al volo gli spazi… Figurati ero in marsina e panciotto aperto! Gli spiriti non gelano, ma poiché mi ero incarnato…”). Il suo obiettivo è “distruggere l’idea di Dio nell’umanità”, perché soltanto allora agli uomini “tutto sarà permesso”. Senza limiti.

 

Nel Demone meschino (1907), di Fëdor Sologub (pseudonimo di Fëdor Kuz’micč Teternikov), il demonio (il male) non è più un personaggio mitico, ma un piccolo essere immondo, “inafferrabile”, un’allucinazione di Peredònov, meschino e perfido maestro elementare. Ma anche quest’allucinazione non è che un “simbolo”, o una metafora, della banalità, dell’ottusità della vita nella provincia russa. Il delirio di Peredònov è incontrollabile: vede fantasmi e mostri dappertutto, malefici e stregonerie in ogni cosa. Uomini e animali sembrano minacciarlo con identica perfidia: “E sulla terra, in quella città oscura ed eternamente nemica, non s’incontrava che gente malvagia, beffarda. Tutto si confondeva in una comune malevolenza verso di lui: i cani sghignazzavano alle sue spalle, gli uomini gli abbaiavano contro”. Si sente solo contro tutti, e tutto sente nemico. Scrive denunce contro un montone, contro le carte da gioco, contro il misterioso Inafferrabile. Intanto, il gatto, nelle sue allucinazioni, cresce a dismisura e si finge un uomo. L’ossessione dell’isolamento, e delle menzogne dell’alterità, porterà alla catastrofe omicida delle ultime battute.

 

Sempre nel 1907, la rivista “Zalotoe runo” (Il cerchio d’oro) di Pietroburgo, dedicò un intero numero a opere letterarie e artistiche ispirate al tema del Diavolo: i versi satanici di A. Kondrat’ev, A. Glikberg, A. Dobrochotov, P. Slanskij, S. Golovacenskij, P. Potiomkin e A. Stejn; i “racconti diabolici” di A. Remizov, F. Sologub, M. Kuzmin; alcune note storiche su Satana nella musica e un saggio sul Diavolo nella storia della pittura russa di A. Uspenskij. E’ quello il periodo in cui il grande pittore simbolista Mikhail Aleksandrovič Vrubel’ (1856-1910), deluso per le critiche (“selvaggia bruttezza”) al suo grande quadro Demone abbattuto (1902), oggi conservato alla Galleria Trétiakov di Mosca, cadde in depressione e iniziò a entrare e uscire dalle cliniche psichiatriche, non certo aiutato dal sopravvento della sifilide. Quel Lucifero veniva dopo il tentativo, non portato a termine, di un Demone volante (1899), dall’incerta identità sessuale, che guarda con odio il cielo, accasciato sulle rocce di un’alta montagna, con le ali contorte e ormai inservibili.

 

Vrubel’, si era stabilito a Kiev nel 1884 per restaurare e ridipingere i perduti murali e mosaici del XII secolo della Chiesa di San Cirillo. Laggiù iniziò a dipingere (1890-1891) la serie Demone, per illustrare il poema di Lermontov, che lo rese famoso. Il più suggestivo è “Testa di Demone”, dove un bel giovane esibisce una capigliatura folta e complicata, quasi un Rasta ante litteram, e lo sguardo di una belva. Dello stesso anno è il dipinto “Demone seduto” (1890, sempre conservato Galleria Trétiakov): un giovane dai muscoli sfaccettati (un po’ precursore degli agiografici ritratti a torso nudo degli operai e contadini dell’epoca del realismo socialista), che guarda maliconicamente l’orizzonte, stringendo le ginocchia avvolte in una tunica azzurra. Purtroppo i magnifici colori di Vrubel’ sono andati perduti, come i suoi demoni: l’aver aggiunto della polvere di bronzo agli olii, per rafforzarne l’effetto terragno, ha provocato con gli anni una reazione chimica di ossidazione che ha  reso bui i suoi dipinti.

 

Anche il protagonista del Diario di Satana di Leonid Nikolaevicč Andreev (1871-1919), come il Demone di Lermontov, si annoia: “Grande è la mia solitudine (…). Mi annoiavo, ecco, nell’inferno, e venni in terra per poter mentire e recitare una parte”. Satana compare sulla terra in incognito, un po’ figlio di Mefistofele, un po’ anticipatore del Woland di Bulgakov, non vuole però conquistare anime né compiere gesta stupefacenti e gettare scompiglio tra gli umani; e non è nemmeno il creatore del Male, l’angelo caduto o il principe delle tenebre della tradizione romantica. Satana si fa uomo, come Cristo, e come Cristo non può uscire da questa avventura mondana con un semplice atto di volontà, ma è costretto a subire le prove che l’iter terreno gli impone. Se Cristo è venuto in terra per salvare l’uomo, Satana – rovescio del divino – lo fa per la noia che gli ispira la vita infernale”. Il senso del Diario è nella negazione dell’esistenza del Bene e nell’affermazione invece che il Male del mondo non ha bisogno di essere immaginato nella forma di alcuna entità metafisica, quando basta scostare la maschera che l’uomo ha sul volto per scoprirne la natura malefica.

 

Grandioso e paradossale è invece il demonismo di Michail A. Bulgakov. Il Diavolo entrò nella sua creazione letteraria abbastanza presto. Nel 1923, lo stesso anno in cui iniziava la scrittura della Guardia Bianca (il suo romanzo storico-autobiografico), scrisse Diavoleide (tradotto in italiano da Andrea Tarabbia per l’editore Voland nel 2012). Lo pubblicò l’anno successivo sull’almanacco “Nedryj” e poi, nel 1925, nella raccolta a cui il racconto dà il nome. Seguendo la lezione di Gogol’, Bulgakov prende un personaggio-tipo, un impiegato di basso rango (Varfolomej Korotkov), e lo mette a confronto con una personificazione del potere, il compagno Mutandoner (nell’originale: Kal’soner). Il nuovo capo della fabbrica di materiale per fiammiferi, dove il povero Korotkov lavora, è un diabolico mostro con una testa a forma di gigantesco uovo perforato da due occhi piccoli come capocchie di spillo: un personaggio irreale (ma, purtroppo, molto reale) che cambia continuamente aspetto e voce. E’ il Diavolo che fa capolino nella realtà e incarna l’inavvicinabile e opprimente mostro burocratico sovietico.

 

Il Maestro e Margherita doveva inizialmente intitolarsi Lo zoccolo dell’ingegnere. Tra il maggio e il giugno del 1928 il termine ingegnere entrò a far parte della demonologia sovietica: un folto gruppo di ingegneri minerari fu accusato di attività antirivoluzionarie e paragonato dalla stampa sovietica a dei diavoli. Il romanzo occupò a Bulgakov una porzione di tempo che va dal 1928 al 1940 (anno della sua morte). Il libro ebbe sei versioni. La prima versione fu confiscata dalla polizia. Nella primavera del 1939, Bulgakov lo lesse ad alta voce agli amici. Poi il manoscritto fu conservato dalla vedova (sfollata durante la guerra a Taskent) in un unico esemplare che veniva prestato di tanto in tanto a qualche fidato amico. Tra questi la poetessa Anna Achmatova che lo leggeva ad alta voce all’attrice Faina Ranevskaja, continuando a ripetere: “E’ geniale, Faina, Bulgakov è un genio!”. Il testo fu pubblicato nel 1966 su rivista e, in forma completa, soltanto nel 1973.

 

In una torrida primavera degli anni Venti fa improvvisa comparsa a Mosca il Diavolo, sotto le spoglie del mago Woland (accompagnato da un bizzarro tipo col cappello da fantino e un paffuto gatto di nome Azazello: dall’ebraico Azazel, un demone corruttore degli esseri umani (Levitico 16, 8), ai quali, secondo alcuni, ha insegnato l’arte di fabbricare le armi e quella del trucco (sarà infatti lui a dare a Margherita la crema da spalmarsi addosso per poter volare via a cavallo di una scopa). Woland/Satana discute di religione con due letterati sovietici, compie esperimenti di magia e mette a soqquadro il rigido burocratismo sovietico. Il libro contiene due vicende che si intersecano: il romanzo scritto da un geniale e oscuro Maestro, che narra dell’ambiguo rapporto tra Gesù e Ponzio Pilato; la storia d’amore tra la bella e agiata Margherita e il Maestro, letterato vessato dai leader della letteratura sovietica ufficiale. Il Maestro è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico e Margherita, pur di rivederlo, accetta di diventare la regina del sabba infernale organizzato da Woland. Nel finale, Woland riparte da Mosca, dopo aver acconsentito a riunire nella pace eterna i due amanti, mentre Gesù e Pilato riprendono la discussione interrotta venti secoli prima.

 

Che cos’era andato a fare Woland a Mosca, se non a smascherare il Male, invece di produrlo? Se non per dimostrare che il Male è la grettezza, la stupidità dell’uomo? Se non per dire indirettamente ai governanti sovietici che il Nuovo Uomo (sovietico) è antico, non è cambiato, che l’uomo è e resterà gretto nonostante i regimi politici?


 

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