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Ora si vede quanto conta il realismo di San Suu Kyi in Birmania

Massimo Morello

Ormai che si profila "uno scenario da guerra civile", la grande speranza è rivolta alla Madre politica: nonostante l'arresto di febbraio, è ancora venerata da tutto il popolo birmano

Mi ero convinto che prima di morire avrei visto una Birmania libera. Ora non ne sono più tanto sicuro. Ma certe mattine penso che potrebbe ancora accadere”, dice Larry Jagan, ex responsabile della Bbc per il sud-est asiatico, uno dei maggiori esperti di Birmania. Lo racconta al Foglio mentre si trova a Parma per le manifestazioni di “Libertà dalla Paura. La democrazia in Myanmar”, iniziativa di “Parma 20-21 capitale della cultura”. Dal 15 al 19 novembre scorsi, Parma è stata anche un laboratorio di studi sulla geopolitica in sud-est asiatico. In qualche caso sembrava di ritrovarsi al The Inya Lake Hotel di Yangon o al Foreign Correspondent Club di Bangkok, dove in molte occasioni Jagan ha condiviso col Foglio le sue analisi e le informazioni che riceveva dai suoi contatti birmani.

 

Le analisi di tutti questi personaggi sono “speculazioni”, come dice Jagan, espressioni di timori e speranze a corrente alternata. Come accade a lui. C’è chi dice che i militari potrebbero sacrificare il generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e a capo della giunta. La loro posizione, infatti, si fa di giorno in giorno più difficile. La resistenza del People’s Defence Force (Pdf), il braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo ombra del Myanmar, aumenta d’intensità, a dispetto di molti osservatori esteri, che ancora credono che il governo ombra persegua gli ideali di non-violenza che Aung San Suu Kyi ha mutuato da Gandhi. Le alleanze tra le milizie etniche hanno costretto i militari a un’escalation repressiva sempre più forte con l’utilizzo di armi pesanti, ma ciò ha fatto sì che molti gruppi etnici sinora “neutrali” passassero all’opposizione.

 

“Non è la Siria”, ripetono tutti come un mantra, ma si delinea uno scenario da guerra civile. La speranza più diffusa e forse più realistica è legata, ancora una volta, a lei: Aung San Suu Kyi. Per i militari è la carta da giocare per garantirsi la sopravvivenza, fisica e politica. Lei potrebbe accettare un accordo in nome di quel principio di realpolitik che l’ha guidata negli ultimi dieci anni. E lei, soprattutto, resta la “prescelta” dei cinesi, come dice la senatrice Albertina Soliani, anima dell’iniziativa di Parma, amica personale della Signora. “La Cina riparte da Aung San Suu Kyi”, dichiara la Soliani, che cita a riprova la visita in Birmania di Sun Guoxiang, inviato speciale di Pechino per gli affari asiatici, che avrebbe ripetutamente richiesto un incontro con Suu Kyi. Lo stesso Sun in un meeting con Min Aung Hlaing ha “avvisato” il generale che la Cina avrebbe accettato la decisione delle nazioni dell’Asean di non invitare un rappresentante della giunta all’incontro, ospitato dalla stessa Cina, che si è tenuto il 22 novembre per celebrare i trent’anni di relazioni tra Cina e Asean.

 

In questa prospettiva, tuttavia, Aung San Suu Kyi e gli esponenti del Nug non sono molto in sintonia. “Forse per qualcuno è meglio che Suu resti in carcere”, dice Jagan, ripetendo subito: “Sono solo speculazioni”. Chi la conosce bene, comunque, non crede che la Signora – che a giugno ha festeggiato il suo settantaseiesimo compleanno, l’ennesimo agli arresti – sia disposta a ritirarsi. Del resto i birmani continuano a ritenerla la loro leader e onorarla come Mae, la Madre. Lo stesso dottor Sasa, ministro della cooperazione internazionale del Nug, portavoce e “volto” di quel governo, continua ad affermare la sua fedeltà alla Signora. Probabilmente si rende conto di non avere il suo carisma.

 

In questa politica d’immagine, i militari si sono giocati la carta dell’ostaggio. “I militari sono molto più strateghi di quanto non si pensi”, dice Jagan. Secondo lui lo avrebbero dimostrato nella vicenda di Danny Fenster, il giornalista americano caporedattore della rivista Frontier Myanmar arrestato a maggio. Il 12 novembre Danny era stato condannato a undici anni di carcere, il 15 era stato liberato. Per alcuni gran parte del merito va accreditato alla mediazione di Bill Richardson, ex senatore americano, da anni attivo in operazioni di mediazione umanitaria. Per altri, Richardson era utile ai militari e lui ha colto l’occasione di riprendersi la scena in Birmania. È dal 1994 che ci prova. Allora affermava di essere vicino alla liberazione di Aung San Suu Kyi. Poi dal 2017 è stato tra i suoi critici più feroci, accusandola di complicità con la giunta. Colpevole di quel realismo politico di cui lui si è fatto protagonista nei suoi recenti incontri col generale Min Aung Hlaing.

È proprio vero: la Birmania si presta a ogni “speculazione”.

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