AP Photo/Wason Wanichakorn

L'oriente a pezzi

Massimo Morello

La Thailandia piegata dai contagi è vittima dei propri valori. In Myanmar il virus giustifica il golpe. Il sud-est asiatico non è mai stato così diviso. Siamo sicuri che il modello occidentale sia così in crisi?

Vip non basta. Almeno in Thailandia. Devi essere un Vvip, una very very important person. Non uno semplicemente famoso, o ricco, non un phu yai, un appartenente alle classi superiori: nelle società così stratificate ognuno (salvo uno) ha un “superiore”. Devi essere qualcuno, magari sconosciuto, ma che abbia molto potere, appartenga all’aristocrazia, a una famiglia d’alto rango, o che abbia molto, ma molto denaro. Meglio se tutte queste cose assieme. Questo complesso rapporto, basato sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, la suddivisione tra phrai, il popolo dei poveri, e ammart, l’aristocrazia di sangue o denaro, è uno degli elementi della khwampenthai, la thailandesità, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale e che molti farang, stranieri, cominciavano a considerare un modello di vita.

 

La pandemia ha messo in crisi sia il sistema sia la sua percezione. Il virus ha disintegrato concetti e preconcetti di asiatici e occidentali. Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso, contestano quegli stessi valori in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. E’ qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella Orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

 

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “nuovo Secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “post-western world” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica popolare cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del sud-est asiatico. Oggi, invece, la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il sud-est asiatico stanno progettando un “muro” che li protegga da ondate di profughi.

 

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del sud-est asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars. Per la maggior parte dei locali, phrai e ammart uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

 

Poi, nell’aprile scorso è arrivata la terza ondata. Il cui epicentro sono stati locali come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati da Vvip che là incontrano ragazze che non sono semplici escort ma aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestarle un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip. In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo rapido, violento e inaspettato. Dall’inizio della pandemia sino all’aprile 2021, infatti, i casi di Covid in Thailandia erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a metà luglio i contagiati sono oltre 350.000, i morti oltre tremila. Ma il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang fino alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

 

Sit-in a Bangkok (AP Photo/Wason Wanichakorn)

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thai l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del sud-est Asiatico. Attualmente poco più del 5 per cento della popolazione è completamente vaccinata. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà. Anche in questo caso, i membri dell’ammart hanno risolto il problema a modo loro, andando a vaccinarsi all’estero: il tour in Russia comprensivo di vaccino a 7 mila dollari ha fatto il tutto esaurito sino a luglio. Esaurite in poche ore le migliaia di dosi di vaccino Moderna messe in vendita online dagli ospedali privati.

 

E mentre la variante Delta si diffonde incontrollata, scarseggiano i kit per i test e centinaia di persone passano la notte nei monasteri in attesa di un tampone, i medici sono allo stremo, vengono allestiti cinquemila posti letto nel nuovo terminal dell’aeroporto Suvarnabhumi di Bangkok, si provano cocktail di Sinovac e AstraZeneca, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento.

 

In una situazione del genere appare grottesca una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai più che alle teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Un potere sempre  più detenuto dalle 50 famiglie più potenti del Regno, il cui patrimonio complessivo è aumentato di un quinto, toccando i 160 miliardi di dollari.

 

C’è un certo conforto nella decadenza. E’ come confrontarsi con la prima nobile verità del Budda, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza”, aveva detto al Foglio lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro “Il viaggio del Naga” in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani. “Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita”. Il Naga, oggi, sembra incarnarsi nel coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

 

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. E’ il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei “valori universali” che si era stati tentati di rinnegare, nella fatale attrazione degli “asian values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

 

Proteste contro il colpo di stato in Myanmar (foto EPA)

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del sud, centrale, orientale, sud-est asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o post-marxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid. “L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante”, ha scritto Francis Fukuyama in epoca pre-pandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del sud-est asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

 

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario dell’Onu per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del Covid e del golpe, in un paese dove l’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno. Un paese dove il numero morti per Covid è sconosciuto ma dove le morti per tortura vengono attribuite al Covid. La catastrofe ha raggiunto dimensioni tali che, secondo alcuni osservatori, il miglior alleato dei militari è il virus che sta stremando l’opposizione, mentre i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale.

 

La situazione in Myanmar, infine, sta generando un effetto contagio in tutta l’area e non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. E’ come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

 

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata di contagi, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo “dalla pandemia all’endemia”, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro.

 

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovranazionale che sembra del tutto priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar cinese meridionale. Quella dell’Asean appare una manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non vengono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione mai pen rai: non pensarci, non preoccuparti.

 

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente, tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il verso senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali –  la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo. “Senza memoria, non vi è identità̀. E senza identità̀, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito”, ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: “Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che le ha portate a esistere”.

 

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