Bangkok (Foto Ansa)

"The Serpent" e il suo cacciatore, la storia vera che ha ispirato la serie Netflix

Massimo Morello

Il generale Suthimai abita qualche piano più sotto e dice della sua rappresentazione nella serie “The Serpent”: “Mi ha rispettato, è un buon me”. Da questo incontro parte il nostro viaggio nelle mutazioni di Bangkok

Sompol e Nicole, lui thai, lei francese, sono sposati da sessantatré anni. Lui ne ha appena compiuti novanta. Sono gentili, sempre sorridenti. Non si separano mai. Ogni sera, tenendosi per mano, vanno a cena in un centro commerciale sul fiume. Sembrano una tenera coppia di anziani innamorati. A Krung Thep, la città degli angeli, come monaci e nobili chiamano Bangkok, nulla è come appare.

 

Nicole era una funzionaria delle Nazioni Unite. Sompol Suthimai è andato in pensione col grado di maggior generale della polizia thailandese. Molti anni fa, quando era un giovane, brillante colonnello dell’Interpol, è stato uno dei protagonisti di una clamorosa, inquietante vicenda: la storia di Charles Sobhraj, alias Alain Gautier, un serial killer franco-vietnamita che ha ucciso almeno una dozzina di giovani occidentali per impadronirsi dei loro passaporti, dei contanti e dei traveller’s cheque che erano la forma di pagamento più diffusa. Grazie alla complicità della sua amante Marie-Andrée Leclerc, alias Monique, e del giovane indiano Ajay Chowdhury, che aveva elevato al rango di suo assistente personale, irretivano i giovani in viaggio lungo il cosiddetto hippie trail, tra Europa e sud-est asiatico. Per la sua capacità d’incantare le vittime o chiunque potesse servire ai suoi scopi, la sua abilità nel mutare identità e trasformarsi in un altro personaggio, per l’uso che faceva di droghe e veleni, era noto come “The Serpent”. Che è il titolo della miniserie di otto puntate co-prodotta da Bbc e Netflix. 

 

 

“Non male”, è il sintetico giudizio del generale Suthimai, anche se confessa che i continui salti di spazio e di luogo che caratterizzano la sceneggiatura lo hanno un po’ confuso. Rileva anche parecchie differenze fisiche tra i personaggi reali e della fiction, ma è soddisfatto di come lo ha rappresentato l’attore Theerapat Sajakul. “Mi ha rispettato. E’ un buon me”, dice, guardando la moglie che fa un gesto d’assenso. Racconta anche del suo incontro con Sobhraj quando era in carcere in India. “Era una figura carismatica. E non era un pazzo. In carcere viveva come un re, con i soldi che gli davano per un libro”. 

 

A chi è ispirato The Serpent

 

Suthimai sembra quasi stupito di tanto interesse per un episodio così lontano. Forse perché si confonde un po’ e la moglie deve spesso ripetergli le domande. Forse perché vuole vivere tranquillo godendosi questi anni. Più probabilmente perché in tutta quella vicenda, come fa intuire, si è scontrato con gli ufficiali della Crime Suppression Division. “Per loro, a quei tempi, la cosa più importante era il contrasto al traffico di droga. Chissà, forse per questo non sembravano così interessati a indagare su Sobhraj”. Un sospetto che appare più fondato di quello secondo cui la reticenza sulle indagini fosse dettata dalla volontà di non screditare la Thailandia come destinazione turistica. Qualunque sia il motivo, è stato Suthimai, infrangendo il sak sit, una specie di codice che regola i rapporti gerarchici, a dare una svolta decisiva all’inchiesta.

 

L’incontro con questa dolce coppia è avvenuto per puro caso, per serendipità. Guardando i titoli di coda dell’ultima puntata di “The Serpent” in cui apparivano le foto dei personaggi reali riprese oggi e mezzo secolo fa, mi è sembrato di vedere un volto conosciuto. Riguardandoli ho riconosciuto Sompol nell’anziano signore che tiene sempre per mano sua moglie e abita nel mio stesso condominio di Bangkok. La sua foto attuale è stata scattata nel terrazzo sul tetto dove vado a fare i miei esercizi.

 

Tutta questa attenzione ai personaggi di “The Serpent” comincia con la stagione delle piogge, quando a Bangkok si apre la caccia al serpente: sulle rive del fiume, tra le catapecchie degli slum, nelle case abbandonate, nei negozi chiusi per la pandemia. In una città, come ha scritto Lawrence Osborne nella sua “Bangkok”, che è “il protocollo di una caduta”. E’ l’immagine più facile da rappresentare, da scrivere e fotografare. Per farlo non c’è nemmeno bisogno di spostarsi a Khlong Toei o Bang Sue, gli slum di Bangkok. Basta un po’ di postproduzione. Come disse John Le Carré a David Greenway del Washington Post quando s’incontrarono in Cambogia nel 1974: “Il tuo lavoro è dire le cose in modo corretto. Il mio di trasformarle in buone storie”.

 

 

 

La realtà è spesso meno drammatica delle storie che la rappresentano. Ngou, il serpente, ad esempio, si trova facilmente. Ce n’era uno anche tra le felci attorno alla vasca di pesci koi sotto casa. Ma la caccia al serpente iniziata in questa stagione non è reale. La serie Netflix andata in onda ha avuto successo e inevitabilmente è iniziata la ricerca dei luoghi della cronaca e delle location della fiction. Quasi tutti sono stati ritrovati o ricreati in Thailandia, anche per risolvere i problemi di viaggio in tempi di Coronavirus. Le spiagge, ad esempio, sono state “spostate” da Pattaya, scena di molti crimini di Sobhraj e ormai alterata dai condomini per pensionati europei, a quelle ancora deserte dei parchi nazionali. Hong Kong è stata trasferita nella Chinatown di Bangkok.

 

Se la ricerca dei luoghi si risolve con una scritta all’inizio di una sequenza, è molto più difficile farlo nel percorso psicogeografico tra spazio e tempo, realtà e romanzesco, cambiamenti sociali, culturali ed economici in Asia, nel modo di vivere e di viaggiare. Il simbolo di questa mutazione è il fumo. Non l’hashish o la marijuana, che erano i compagni di viaggio dei passeggeri dei Magic Bus (come quello che appare in qualche scena di “The Serpent”) tra Londra e il sud-est asiatico via Iran, Afghanistan, Pakistan, India, and Nepal. No, il fumo che segna l’epoca è quello delle sigarette. Fumavano tutti e si fumava ovunque, anche in aereo. Di mozziconi di sigarette sono pieni i posaceneri nei set di “The Serpent”. In termini geopolitici, invece – come ci fanno rimpiangere molti viaggi compiuti da Sobhraj e Monique – i percorsi di allora non sono più possibili e ci si può consolare solo col fatto che oggi si può andare in posti allora chiusi, come la Cina o le repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica.

 

A quanto pare, per caso o karma, la storia di quelle storie era in attesa di essere scritta proprio qui, al Baan Chao Praya, il condominio dove abito e dove vivono Sompol e Nicole. In casi di coincidenze così significative è difficile non credere ai phi, gli Spiriti. Questa, poi, non è l’unica coincidenza. In questa caccia mi sono imbattuto in un’altra vecchia conoscenza: Roland Neveu, il fotografo di scena di “The Serpent”. Tra la comunità dei giornalisti a Bangkok, quelli più anziani, i cosiddetti Asian Old Hands, Roland è famoso perché è stato uno dei pochissimi reporter rimasti a Phnom Penh quando la capitale cambogiana fu conquistata dai khmer rossi. Forse è per questa esperienza che riesce sempre a cogliere il lato oscuro delle storie. E’ qualcosa che in Asia diviene naturale. “Ciò che gli occidentali chiamano una visione fatalistica della vita, in Asia si trasforma spesso nell’idea del karma. Tutte le buone e le cattive azioni di una vita passata si pagano per le strade, nei bar e nei vicoli di questa vita: non resta molto spazio per il libero arbitrio all’interno del concetto di un universo in cui i debiti si saldano in una prossima incarnazione”, scrive Christopher G. Moore, autore di thriller ambientati a Bangkok. “Questo è uno dei grandi vantaggi del karma, amico mio: non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri, ma solo sul tuo”, mi ha detto John Burdett, ex avvocato che, pure lui, scrive romanzi gialli ambientati in Thailandia.

 

Anche Luca Invernizzi Tettoni credeva nel karma e pensava di essere alla sua terza incarnazione. Ora potrebbe essere alla quarta, perché è scomparso qualche anno fa. Luca (cui Il Foglio dedicò uno dei suoi ritratti del sabato), altro fotografo, è un personaggio che appare in questa personale caccia al serpente per l’ennesima coincidenza di stato in luogo. Il suo ristorante preferito, Zanotti, dove mi invitò in uno dei miei primi passaggi a Bangkok più di vent’anni fa, si trova in Soi Saladaeng, una delle traverse di Silom, una delle vie centrali di Bangkok. A un centinaio di metri dalla Kanit House, la casa (in realtà un piccolo condominio) in cui abitavano Sobhraj, Marie e altri personaggi di questa storia, dove si svolgevano le feste in piscina che attraevano i giovani di passaggio. E’ un dato non marginale: negli anni Settanta l’area di Silom era una delle più eleganti di Bangkok e non c’è dubbio potesse esercitare una forte attrazione per i giovani che si fermavano a Khao San Road, la via principale di Banglampoo. Dalla fine degli anni Sessanta i suoi alloggi a basso costo accolsero gli sbandati sulle vie dell’Asia descritti nelle storie di viaggio di Pico Iyer in “C’era una volta l’Oriente”. Le sue corti oscure con edifici in stile sino-coloniale erano il terminale allucinato di viaggio ed esistenziale per molti hippy.

 

L’altro topos letterario e simbolico della Bangkok di quel periodo è Patpong, un’area prossima alla Kanit House. Fu acquistata dall’immigrato cinese Tun Poon, detto Patpong. Suo figlio Udom, che durante la Seconda guerra mondiale aveva collaborato con l’Office of Strategic Services (Oss), precursore della Cia, lo fece divenire luogo d’incontro e svago per spie e giornalisti (vi si trovava anche una casa sicura della Cia, sopra il Bar Madrid). La guerra in Vietnam col passaggio a Bangkok dei militari in  R&R (rest and recuperation o rest and relaxation,  rest and recreation, rest and rehabilitation) segnò la definitiva consacrazione di Patpong come distretto a luci rosse.

 

Oggi al posto della Kanit House c’è un condominio di lusso, The Legend Saladaeng (appartamenti da un minimo di 400 mila euro). La location della serie è stata trovata nelle traverse di un’altra grande via di Bangkok, la Sukhumvit, dove rimangono, per la gioia di pochi ricchi e colti espatriati, alcune residenze risalenti al secolo scorso. Banglampoo è ancora residenza dei giovani viaggiatori, non più hippie bensì backpacker, è divenuto di moda anche tra i rampolli della borghesia thai e gli studenti della Thammasat University e sembra tornato alla sua antica vocazione di quartiere artistico e bohème. Insomma: è un laboratorio antropologico della postmodernità, lo scenario delle nuove tribù che si incrociano nell’Asia sud-orientale. Patpong, infine, è divenuto un’attrazione turistica e i ricordi del suo passato tra vizi e intrighi è raccolto nei 300 metri quadri del Patpong Museum. Il Bar Madrid, più che da avventurieri, è frequentato da pensionati in cerca di un brivido. In epoca di Covid, poi, il governo thailandese ha approfittato per “sanificare” e bonificare sia Patpong sia Khao San Road (la strada centrale di Banglampoo), che stanno tristemente diventando isole pedonali destinate a un borghese turismo interno. Per i suoi effetti collaterali e le sue mutazioni il virus si sta rivelando un incubatore di mutazioni sociali.

 

 

 

La coincidenza di luoghi innescata dal ricordo di Luca ci ha portato molto lontano da quello spirito dei tempi che lui interpretava. “Non amo quelli che scrivono di cose che non hanno vissuto, perché chi le ha vissute in genere non le racconta. A parte qualche rara eccezione… Baudelaire, Rimbaud”, diceva Luca, che manifestava un notevole fastidio per molti giornalisti che negli anni Settanta bazzicavano Bangkok come osservatorio sulle guerre d’Indocina. In un certo senso mi ricordava certi personaggi di Somerset Maugham o André Malraux, per quel loro distacco, l’egocentrismo, il compromesso raggiunto con la vita. “Quando sono arrivato qui non pensavo di restare. Allora m’interessava l’Indonesia. Allora era un paese illuminato, la cultura giavanese era ancora viva. Mi sono deciso per la Thailandia quando ho visto due ragazze che ballavano assieme in un locale di Bangkok”, mi confessò. “Da allora è sempre la solita storia. Ieri ho sviluppato un rullino che era rimasto in macchina: metà scatti sono di un portale arcano del Laos, metà di una donna che fa il bagno nuda”. A volte Luca mi metteva a disagio, con le sue divagazioni erotiche. Mi veniva in mente l’aggettivo “malsano” che in “Apocalypse Now” era riferito al colonnello Kurtz.

 

Questa caccia al serpente diventa pericolosa: non bisogna farsi travolgere, coinvolgere, deviare dalle madeleine avvelenate disseminate da “The Serpent” lungo il cammino. In questo mondo, come scrive Christopher G. Moore, “la possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile”. Moore, descrivendo le scene dei suoi noir, azzarda il paragone con la “Morte a Venezia” di Thomas Mann, nell’estetica dell’altrove esotico che sotto la superficie del sogno nasconde gli incubi della decadenza, dell’ambiguità e di un’epidemia che non purifica.

 

Per affrontare i rischi di questa caccia ci vuole elasticità mentale, la capacità di mettere in discussione le proprie idee e credenze. Bisogna resettare i propri ritmi circadiani, ripensando ai tempi in cui la distanza si misurava in giorni e non in ore. Quando il percorso era un distacco totale, spesso molto tranquillizzante, da legami e obblighi familiari e sociali. Si viveva in un mondo analogico, disconnesso, in cui il viaggio e il crimine erano accomunati dalla quasi totale mancanza di controlli, dove bastava sostituire una fototessera a un passaporto. Dove ci si poteva perdere e far perdere le proprie tracce. Si perdeva anche chi non voleva, come dimostrano le vittime di “The Serpent”.

 

Mi viene in mente Francesca, italiana, ventisei anni, bionda, vestita con un abito leggero a fiori, dall’aria smarrita. L’ho incontrata a Kathmandu, al Ganesh Restaurant. Divideva i giorni tra quella sala e una stanza nella guest house Century Lodge, riempiendo di appunti e disegni i suoi quaderni di carta di riso. Scriveva i suoi incubi e la storia di un viaggio iniziato due anni prima e che si è arenato a Jochne, la via di Kathmandu più nota come Freak Street. Chissà dove, lungo questo cammino, forse a Goa, forse proprio là, qualcosa ha definitivamente mandato in corto circuito le sue sinapsi. “Devi raccontarlo: mi vogliono rubare la vita, ma io ho ancora il mio passaporto, c’è il mio codice d’accesso all’esistenza”, mi ha detto sorridendo triste. “Sento che di te mi posso fidare. Ecco, ti scrivo il mio codice. Così, se io scompaio, tu potrai dimostrare che io esistevo”.

 

To all the young intrepids who set out with big dreams but never made it home” è la dedica finale di “The Serpent”. Mi sembra un po’ troppo eroica e assolutoria. I nomadi dello spirito finiscono sempre per trascorrere una stagione all’inferno.

 

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