reportage dal confine

Guardando il Myanmar intrappolato dagli incubi

Il paradosso è che qualcuno comincia a credere che il golpe possa rivelarsi l'occasione per un'alternativa al governo di Aung San Suu Kyi che non è riuscito a rinnovarsi. "Il primo febbraio è morta la speranza che era nata nel 1988. La Signora era la speranza", commenta una fonte al Foglio 

Massimo Morello

I racconti da Mae Sot, uno degli snodi della via delle seta oggi puzzle tribale in perenne scomposizione. Qui i birmani rimasti sono intrappolati dal Covid e chi è tornato si è ritrovato a subire le violenze dei militari

"Torno in Birmania? Resto qui?", La domanda di “Mister Venerdì” – si chiama così, con due parole che traduce con “Mister Venerdì” – è di quelle che ti lasciano sgomento. Mister Venerdì è uno dei rifugiati Karen che vivono nel campo di Mae La, a nord di Mae Sot, città thailandese sul fiume Moei, un confine tra Thailandia e Birmania.

 

"Il mondo sa quello che succede ma nessuno fa niente", dice un altro mentre osserva piangendo un video che gli è stato trasmesso dalla Birmania. "Se si avverassero le peggiori previsioni, i sopravvissuti cercherebbero di raggiungere la Thailandia. Sarebbe un esodo biblico". 

 

 

"C’è sempre una brutta storia dietro", dice Stuart, veterano del Vietnam, volontario in un ospedale per profughi. A Mae Sot queste storie si replicano da anni. È la scena in cui accadono ma è anche il punto da cui se ne osservano altre che accadono altrove. Perché è il posto più vicino alla Birmania che si possa raggiungere quando la Birmania è oscurata da crisi e catastrofi che spesso si combinano e si diffondono come le coltri di fumo degli incendi della deforestazione. 

 

La Birmania è oltre il fiume che divide Mae Sot dalla città di Myawaddy, oltre l’ennesimo ponte dell’amicizia che la Cina ha costruito su tutti i fiumi che intersecano le sue vie della seta. Un ponte che nel marzo del 2021 è chiuso per evitare il passaggio di ogni potenziale portatore di Covid. E limitare l’onda di profughi montante ai primi segnali di guerra civile tra il Tatmadaw, l’esercito birmano, e le milizie etniche che potrebbero approfittare del caos generato dal colpo di stato del primo febbraio.  

 

Quelle voci sentite a Mae Sot, che apparentemente raccontano questa storia, in realtà sono state raccolte nel maggio 2008, a un mese dal ciclone Nargis, che aveva devastato la Birmania causando oltre 100.000 morti e decine di migliaia di profughi, quando era stato permesso il passaggio dei soccorsi dalla Thailandia. Era anche uno dei momenti più brutali del myo dong, il genocidio delle minoranze messo in atto dalla giunta d’allora. 

 

 

Chissà che fine ha fatto Stuart. Ma è come diceva lui: c’è sempre una brutta storia dietro. È sempre “Dhamma versus adhamma”, “la giustizia contro l’ingiustizia”, come lo slogan gridato dai giovani birmani nelle manifestazioni di quest’ultimo mese, invocando quel Dhamma che è legge morale e insegnamento del Budda. A Mae Sot si materializza l’idea del samsara, quel ciclo di vita, morte e rinascita che intrappola gli uomini nell’oceano dell’esistenza permeato di sofferenza. 

 

Accade per gli uomini che ci vivono e sopravvivono, come per la città stessa. Nel 2008 era, secondo la definizione retorica, un cuore di tenebra. Un posto dove ogni cosa era truccata, merce di scambio, che fossero i gamberi di fiume imbottiti di piombi da pesca per alterarne il peso o le bilance che li pesavano, le mucche indiane vendute ai cinesi come d’origine thai, le donne cedute sul mercato del sesso e quelle impiegate nelle sweat factory, le fabbriche del sudore, che producono l’abbigliamento casual dei marchi globali. 

 

 

Dopo tredici anni, Mae Sot è cambiata. È divenuta uno degli snodi centrali della via della seta - incrocio dei corridoi economici ovest-est e sud-nord che interconnettono Golfo del Bengala, Malaysia, Yunnan e Mar della Cina Meridionale attraverso Thailandia, Laos e Vietnam. Il 30 ottobre 2019 è stato inaugurato un secondo ponte dell’amicizia costruito da un consorzio cinese. Questo non è stato chiuso per Covid. Non del tutto: i camion thailandesi possono transitare trasportando merci in Birmania. È così, dicono, che sono approvvigionati i militari dopo che le forze della Karen National Union (Knu) hanno tagliato le linee di rifornimento. Le notizie sono state smentite dal comando thai di zona. Una cosa è sicura: da quel confine passano decine di casse di M-150. Che non è un nuovo tipo di fucile d’assalto, ma una bevanda energetica che serve a tener svegli i soldati e mandar giù, secondo altre voci, le pillole di metanfetamine.

 

Non sono certo questi i traffici che possono alimentare la Zona Economica Speciale costruita attorno a Mae Sot, ai margini di una circonvallazione interconnessa ad highway a quattro corsie e attorno alla quale sono spuntate nuove fabbriche. A differenza delle precedenti, simili a campi di lavoro, dov’era proibito l’accesso e da dove le operaie non potevano uscire perché prive di documenti, queste sono aperte al pubblico che va a fare shopping nell’outlet aziendale. E le operaie vivono in piccoli villaggi accanto alla fabbrica. Dove gli uomini scavano pozzi sempre più profondi per raggiungere l’acqua sempre più scarsa per la siccità. Difficile immaginare quali saranno le condizioni di vita in questi micro-slum in caso di afflusso di nuovi profughi.   

 

 

"In questa zona il degrado è istantaneo. Dopo qualche mese tutto collassa. La polvere, la vegetazione si riprendono tutto", dice un occidentale di una piccola ong. Sono le macerie descritte da Marc Augé, l’antropologo della surmodernità, segni di collasso, decadenza, rimovibili, sostituibili, contrapposti alle rovine, come ad Angkor, monumenti della memoria. Quell’uomo si riferisce a tutto ciò che è stato fatto, disfatto e rifatto a Mae Sot nel corso degli ultimi vent’anni, nel ripetersi di macerie, ricostruzioni e nuove macerie. 

 

Il collasso si avverte nella visione metafisica del Myawaddy Complex Casino, sulla riva del fiume ai margini della città birmana di Myawaddy. È un’enclave che comprende un grande casinò, un albergo, un ristorante con bar sulla terrazza e un duty free. Prima del Covid si raggiungeva con piccoli battelli simili a sampan, mentre sulla riva thai si allineavano i parcheggi. Anche The Teak, il nuovo hotel di design (costruito con dispiego del legno che gli dà nome) nel centro di Mae Sot era destinato ai turisti cinesi e thai che andavano a giocare, fare shopping o intrattenersi con le escort. Oggi le ragazze se ne sono andate, la maggior parte sono tornate al loro villaggio d’origine nell’Isaan, il nord-est della Thailandia, The Teak è frequentato da rari thai o occidentali in viaggio di lavoro, mentre il Myawaddy Complex appare come una delle tante ghost city che la Cina ha disseminato nell’area come i ponti dell’amicizia. 

 

 

Shwe Kokko New City, nuova città progettata a circa 25 chilometri a nord di Myawaddy, è un fantasma latente. Esiste solo nei progetti e nel rendering che la presentano come una sorta di Elysium. Dovrebbe comprendere appartamenti di lusso in condominio o ville, hotel e casinò, un deposito per container e un aeroporto. È concepita come una zona franca con una propria cryptovaluta, finanziata e controllata da una società di Hong Kong in partnership con una company di proprietà della Kayin State Border Guard Force (Bgf), la guardia di frontiera dello stato Kayin (ridenominazione del territorio Karen), in teoria alleata di Tatmadaw, ma controllata dalla Karen National Union. 

 

Sono storie come questa che rendono Mae Sot una metafora delle vicende che accadono in Birmania, un puzzle tribale in perenne scomposizione anche all’interno di uno stesso gruppo come quello dei Karen. Originariamente di religione animista, si sono poi divisi in Pwo Karen, buddhisti, e Sgaw Karen, cristiani, sincretizzando entrambi la nuova fede con il culto originario per il Signore della Terra e delle Acque. 

 

 

È una trama che può apparire l’ennesimo studio etnologico. Ma che si materializza in tutta la sua tragicità nei campi profughi attorno a Mae Sot. Il più grande è Mae La, 70 chilometri a nord. Si estende su 240 ettari disseminati di capanne tra sentieri di fango che nella stagione delle piogge diventano un pantano. E’ popolato da circa 35000 non-persone. "Non abbiamo un’identità, non siamo riconosciuti come rifugiati e non possiamo lavorare in Thailandia",  dice uno di loro. Negli ultimi anni pre-Covid, molti sono tornati in Birmania, rassicurati dalle garanzie del governo civile. Altri hanno preferito restare, per diffidenza, nella speranza di un permesso di residenza in Thailandia, confidando nel long kaek, l’assistenza reciproca che nei campi profughi ha replicato l’ecosistema dei villaggi asiatici. Ma se chi è tornato in Birmania si è ritrovato a subire la violenza di Tatmadaw, i rimasti sono intrappolati dal Covid, in campi delimitati da una nuova cortina di bambù che ha bloccato ogni varco e controllati da militari più numerosi e rigorosi di quando consentivano l’accesso anche ai giornalisti e a qualche turista attratto dall’orrore. E così si sono interrotti quei piccoli commerci che rendevano la vita un po’ più accettabile. 

 

Ancora una volta il samsara si manifesta nella sua dimensione di ciclo ricorrente di sofferenza. E ancora una volta sembra che Mae Sot sia la scena di quel destino. Sta accadendo a coloro che nel 2008 fuggirono dal delta dell’Ayeyarwady devastato dal ciclone cercando rifugio e fortuna a Yangon. Finirono nella township di Hlaing Tharyar, divenuto un ghetto sovrappopolato definito “zoe”, gangster. È in quella miscela tossica di miseria, rabbia, traffici, bande, lavoro nero, abusivi e sottoproletariato, che il 14 marzo sono divampati i più violenti scontri tra manifestanti e forze speciali. Mentre nelle altre parti di Yangon i manifestanti del Civil Disobedience Movement (Cdm) cercavano di opporsi ai militari con i sistemi che Aung San Suu Kyi aveva mutuato dal gandhismo – ispirazione che in troppi dimenticano - evitando lo scontro diretto, a Hlaing Tharyar prevalevano i sistemi degli zoe, coperti di tatuaggi che dovrebbero proteggerli armi da fuoco e da taglio,  armati di “nyat gyi daung”, versione birmana dei machete, e di molotov. Sono loro, forse con la complicità dei militari, che hanno dato fuoco a due fabbriche cinesi innescando quella reazione a catena che ha portato alla dichiarazione della legge marziale che permette ai militari di saccheggiare le botteghe, umiliare i cittadini, entrare nelle case e prelevare gli uomini per ripulire le strade dalle barricate. È la strategia del terrore a dimensione di slum.  "Non posso uscire, non so che fare, vorrei andarmene ma ho due figli piccoli. Però sto finendo i soldi che avevo da parte", dice disperato al Foglio uno tra coloro rimasti intrappolati a Hlaing Tharyar, raggiunto tramite una catena di sant’Antonio telefonica. È gente come lui, non i gangster, che cerca di fuggire. Se e quando ci riuscirà la sua destinazione sarà il confine con la Thailandia. A Myawaddy. Da dove sperano di raggiungere Mae Sot e i campi profughi. Intanto però, i combattimenti tra Karen e militari si stanno riaccendendo: il 14 marzo la Karen National Union ha annunciato il suo supporto ai movimenti di protesta e il 19, proprio a Myawaddy i militari hanno sparato sui manifestanti, aggiungendo almeno due feriti gravi a una lista di vittime sempre più difficile da aggiornare (circa 250 morti al 22 marzo). 

 

 

Nelle zone di confine dove le milizie etniche combattono da decenni – per l’autodeterminazione, il controllo dei traffici o entrambi – la situazione sta diventando sempre più instabile. Probabilmente perché il governo militare appare in crisi. Oltre i Karen, quindi, si stanno mobilitando i Kachin, stanziati all’estremo nord, il cui Kachin Independence Army (Kia), uno dei più forti gruppi armatici etnici, ha infranto la tregua con Tatmadaw a metà marzo. Gli ultimi, e probabilmente più pericolosi a scendere in campo, dovrebbero essere gli Shan, cui si attribuisce l’eliminazione di quattro militari. Il fattore più interessante è che forse per la prima volta le organizzazioni e le milizie etniche assicurano sostegno e protezione a tutti, di qualunque etnia siano e qualunque sia “l’intensità” con cui si oppongono al regime. "Quando diciamo 'proteggere il popolo' intendiamo tutto il popolo della Birmania", ha dichiarato un ufficiale del Kia. 

 

"Hanno sempre usato il concetto del divide et impera ma questa volta non funziona", dice un giovane di Mae Sot, un pacifista che parla di un possibile esercito di autodifesa formato da tutti i gruppi etnici con l’appoggio dei movimenti di disobbedienza civile e la benedizione del Committee Representing the Pyidaungsu Hluttaw (Crph), il comitato degli eletti nelle due camere (il Pyidaungsu Hluttaw). "Non credo che i militari abbiano il potere. Hanno le armi ma non hanno il potere", dice ancora quel giovane, testimone di una generazione che “non vuole tornare indietro”. Per quei giovani il nuovo mantra è “democrazia federale”, mentre “negoziazione”, “riconciliazione nazionale” sono divenuti termini tabù. Il paradosso è che qualcuno comincia a credere che il golpe possa rivelarsi l’occasione per un’alternativa al governo di Aung San Suu Kyi che non è riuscito a rinnovarsi. Sembra uno psicodramma. "Il primo febbraio è morta la speranza che era nata nel 1988. La Signora era la speranza", commenta una fonte del Foglio rimasta a Yangon. "E’ come se fosse morta la mamma". Per elaborare il lutto i giovani cercano di dimenticare ciò che è stato fatto e hanno perduto, pensando di costruire un futuro libero dal passato, trasformano la Madre in matrigna. È un po’ quello che accade ai militari. Secondo voci popolari sarebbero ossessionati dai fantasmi di coloro che hanno ucciso. L’ultimo, a mezzogiorno del 22, è un ragazzino di tredici anni.

 

In Birmania sembrano tutti intrappolati nei propri sogni o incubi, in una situazione incancrenita dove la guerra civile è considerata un’alternativa allo svolgimento della festa delle forze armate, prevista per il 27. Intanto nello scenario Indo-Pacifico il paese diviene il Parco della Vittoria, il terreno di maggior pregio, nel Monopoli a cui partecipano sempre nuovi giocatori.

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