Morti e incendi

Al confine della repressione birmana

A Mae Sot, città sul fiume Moei che segna un confine tra Thailandia e Birmania, i gradi di separazione tra golpe, pandemia, miseria, tragedie individuali, contrasti etnici e sociali si riducono. "E' una situazione in cui perdono tutti"

Massimo Morello

Dal primo febbraio, ci sono stati più di duecento morti. Ma la contabilità delle vittime è un esercizio tanto inutile quanto falso: tutte le fonti del Foglio confermano che, come accade per molti prigionieri, anche molti morti vengono fatti sparire. Non per paura dell’opinione pubblica. E’ per il motivo opposto: in un paese in cui l’occulto, la dimensione magica è pervasiva, il mistero, la sparizione dei corpi incute terrore

"I thai hanno preparato dei rifugi di fortuna lungo il fiume per i birmani che scapperanno", dice al Foglio la responsabile di una ong di Mae Sot, città sul fiume Moei, che segna un confine tra Thailandia e Birmania. "Si preparano allo scenario peggiore".


Se i thai, che hanno sigillato la frontiera e disteso chilometri di filo spinato lungo il fiume per bloccare ogni potenziale portatore di Covid, si preparano a un’ondata di profughi, c’è da temere che stia davvero per accadere.


Dopo un’altra domenica di sangue, quella del 14 marzo, è probabile che saranno molti a voler fuggire dalla Birmania. E’ stato il giorno più sanguinoso dal colpo di stato del primo febbraio che ha riportato il paese indietro di oltre trent’anni. Secondo gli ultimi aggiornamenti, la domenica si è conclusa con almeno 71 persone uccise. Il totale dal primo febbraio è di circa duecento. E mentre ancora si contano i morti di domenica, si riceve notizia dei primi di lunedì, almeno sei.

 

La contabilità delle vittime è un esercizio tanto inutile quanto falso: tutte le fonti del Foglio confermano che, come accade per molti prigionieri, anche molti morti vengono fatti sparire. Non per paura dell’opinione pubblica. E’ per il motivo opposto: in un paese in cui l’occulto, la dimensione magica è pervasiva, il mistero, la sparizione dei corpi incute terrore.
"Non so, non sappiamo, non significa che sia vero anche se chi l’ha detto è qualcuno che conosciamo", dice un giovane europeo che lavora in quella stessa ong di Mae Sot ed è coinvolto nelle vicende locali perché ha sposato una Karen, etnia che ha i suoi territori ancestrali a ovest del fiume Moei. Secondo lui il conto dei morti o dei feriti come il numero potenziale dei profughi non è semplicemente connesso alla repressione armata dei militari. "La gente non ha acqua, cibo, sta morendo di fame".

 

A Mae Sot i gradi di separazione tra golpe, pandemia, miseria, tragedie individuali, contrasti etnici e sociali si riducono. Per oltre vent’anni è stata il rifugio dei profughi che fuggivano dalla Birmania, che fossero Karen, nemici storici del governo militare, dissidenti politici o migranti economici. Con loro la città si è popolata di trafficanti, agenti e assassini dei servizi birmani, volontari e funzionari delle ong. Ai primi accenni di democrazia, dopo il 2010, e ancor più dopo le elezioni del 2015 vinte dalla National League for Democracy, la città ha cambiato pelle, è divenuta lo snodo di uno dei corridoi della via della seta. Molti profughi sono tornati in patria e con loro se ne sono andati sia i trafficanti sia molti cooperanti.

 

Uno dei simboli di questa mutazione è la clinica Mae Tao della dottoressa Cynthia Maung. Lei fa parte della cosiddetta Generazione dell’88, i giovani che in quell’anno del secolo scorso si opposero alla dittatura e ne pagarono il prezzo con la morte, il carcere, la tortura, l’esilio. Come sta accadendo ai loro nipoti della Generazione Z. La dottoressa Maung dopo la fuga ha aperto una clinica a Mae Sot per dare un servizio sanitario gratuito a profughi e migranti. E a coloro che erano vittime della repressione dell’esercito birmano nei territori Karen, centinaia di  vittime soprattutto delle mine che i soldati seminavano nei villaggi. L’ospedale, quindi, si era attrezzato con unofficina che produceva protesi artigianali. Ma negli ultimi anni l’officina è stata chiusa, l’ospedale ha cambiato sede e i pazienti sono diminuiti. Segno di una parvenza di pace, di progresso, miglioramento tangibile nelle condizioni di vita. Anche perché è stato possibile aprire piccoli presidi medici all’interno della Birmania.


"Qui vediamo nascere i bambini. Ma non sappiamo che cosa accadrà loro tra dieci, quindici anni, se si uccideranno l’un l’altro", dice al Foglio la dottoressa Maung, che appare molto turbata. E’ il dubbio di chi sente compassione per la vittima e il suo carnefice. "Per fare quello che fanno i soldati devono soffrire mentalmente.  Qualcosa si è spezzato nel loro cervello".

 

Tra tanti dubbi la pazzia sembra la sola certezza. E così la domenica trascorsa non è stata segnata solo dal numero dei morti, ma anche da un’escalation nel confronto tra manifestanti e militari. I primi hanno dato fuoco a due fabbriche di proprietà cinesi. I cinesi, sempre poco amati nell’area, qui sono visti come complici dei militari perché non hanno evitato il colpo di stato né hanno fatto pressione sui militari affinché si ritirassero. Sono accusati di colpevole non ingerenza negli affari interni birmani. Ma quei roghi di fabbriche li hanno convinti a intervenire, chiedendo con fermezza ai militari di impedire il ripetersi di azioni simili. Peggio ancora: di punire i responsabili. I militari hanno obbedito imponendo la legge marziale in molti distretti di Yangon. "Significa che possono fare cose ancora peggiori di quel che fanno", dice al Foglio un attivista politico di Mae Sot.

 

Dal fronte dei manifestanti, poi, giungono notizie di violazioni continue della legge marziale, unite a racconti incontrollabili. Come quello di un cecchino dell’esercito cui sarebbero state tagliate le mani. Sono scene che sembrano tratte da un film horror ma che in molti casi si sono rivelate vere. Sono significative di un clima in cui la riconciliazione nazionale, che per molti era l’unica via d’uscita, appare sempre meno probabile. "E’ una situazione in cui perdono tutti", ha detto la dottoressa Maung.

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