Uno scatto delle proteste in Myanmar (LaPresse)

regionalizzazione globale

La crisi in Myanmar dà inizio all'epoca del tribalismo

Massimo Morello

L’Asean dice: non intervento. Gli equilibri si sono trasformati, c’è il potere cinese e il resto è frammentato 

 

L’hastag che circolava tra i social birmani domenica 28 febbraio, conclusa con oltre 20 morti tra i manifestanti, era #WeNeedR2PInMyanmar. R2P si riferisce a Responsibility to Protect, principio adottato in seguito al genocidio del 1994 in Rwanda, secondo cui la comunità internazionale è autorizzata a intervenire in un paese qualora il governo non sia in grado di proteggere la popolazione da crimini di guerra o pulizia etnica. L’incubo di quella storia si manifesta ciclicamente. Ogni volta,  quasi a esorcizzare l’orrore, si ricorda il film che lo rappresenta: “Hotel Rwanda”. Nel 2010 è accaduto in Thailandia, negli scontri tra “rossi” e militari. Tanto che l’associazione “People Who Do Not Accept Civil War” aveva proposto di proiettare il film in una stazione di Bangkok. L’ipotesi non si è realizzata anche perché in Thailandia quello scontro, che continua in un ciclo di diverse intensità, non ha connotazioni etniche, bensì sociali, culturali. 

 


In Birmania, quell’ipotesi non appare così remota. A due giorni dalla domenica di sangue nuovi incidenti hanno provocato altre vittime (almeno tre feriti gravi, forse due morti). Mentre i ministri degli Esteri dell’Asean rimandano la videoconferenza con i militari e le “forze di sicurezza” sparano lacrimogeni, proiettili di gomma e di piombo, i manifestanti cantano. “Se saremo oppressi ci sarà un’esplosione. Se saremo colpiti, restituiremo il colpo”. Secondo il dottor Sa Sa, inviato speciale alle Nazioni Unite del governo eletto, gli autori del golpe devono essere incriminati per delitti contro l’umanità

 

 

Il golpe del 1° febbraio ha innescato una reazione che i generali non avevano previsto, convinti che la psicologia di massa fosse la stessa di trent’anni fa. Da allora la generazione Z, i nati tra metà anni ’90 e il 2010, è cresciuta nel miraggio della democrazia e non intende rinunciarvi. Il Civil Disobedience Movement ha fatto presa, con scioperi che hanno paralizzato i servizi pubblici e manifestazioni con centinaia di migliaia di persone. 
I militari, però, si sono rivelati meno sprovveduti di quanto molti sperassero. Come si legge in un reportage del New York Times, stanno utilizzando i sistemi di cybersicurezza acquistati sul mercato internazionale per individuare gli oppositori. I generali sembrano preferire una violenza più occulta. Vogliono evitare una strage, ma hanno intensificato la repressione: sono oltre 1.200 i prigionieri politici, di cui spesso non si sa più nulla e di cui ogni notte aumenta il numero. A un mese dal suo arresto non si sa dove sia Aung San Suu Kyi. È apparsa solo in una videoconferenza lunedì 1 marzo per essere accusata di “incitamento alla sedizione”. Rischia sino a nove anni di carcere.

 

Si è creato uno stallo che potrebbe portare a una situazione ruandese. Tanto più che alcuni alti ufficiali di polizia si sono schierati coi manifestanti. Mentre le milizie etniche che controllano gran parte del paese potrebbero approfittare del caos per stabilire stati autonomi che finirebbero in conflitto tra loro e con il governo per il controllo del traffico di droga. Secondo un diplomatico la situazione rappresenta la regionalizzazione globale, la divisione del mondo in nuove e più complesse sfere d’influenza. Il sud-est asiatico rientra in quella cinese. Ma poiché la politica di Pechino si basa sul controllo indiretto, una realpolitik agli steroidi, il regionalismo si frammenta in tribalismo. Come ha scritto lo studioso di politica internazionale Michael Carpenter, “il tribalismo sta uccidendo il liberalismo”. Un’ipotesi accademica che nel sud-est asiatico è realtà. Con diverse intensità tutti i paesi dell’area sono soggetti a un governo autocratico e in tutti si reincarnano le tribù. Può accadere nelle declinazioni dell’islam in Indonesia o Malaysia, come nelle fazioni contrarie al regime dell’ex khmer rosso Hun Sen in Cambogia.

 

Si manifesta anche nel movimento d’opposizione thai. Nato dalla dissoluzione del Future Forward, il partito del carismatico miliardario Thanathorn, divenuto uno spettacolare fronte studentesco che ha osato desacralizzare la monarchia, negli ultimi tempi (com’è accaduto negli scontri con la polizia del 28 febbraio) si è frammentato in gruppi e gruppuscoli, alcuni d’ispirazione marxista, altri formati da ex “camicie rosse”. La risposta dell’Asean alla crisi in Myanmar è formale. Alle 18.17 di martedì i ministri degli esteri invitano al dialogo dichiarando una politica di critica ma di “non intervento”. Per quanto all’interno dell’Associazione ci siano diverse posizioni (specie sulla questione del Mar Cinese) sono concordi nell’evitare nuovi attriti col Grande Fratello. Il timore maggiore, espresso da Singapore che ha enormi interessi in Birmania, non è per la democrazia o i diritti umani, bensì per la stabilità dell’area. È per questo che martedì sera il primo ministro Lee ha dichiarato che la situazione birmana “è un enorme, tragico passo indietro”. 

 

“È finita l’epoca post coloniale”, dice al Foglio un uomo d’affari che osserva gli avvenimenti con timore e curiosità. Ipotesi interessante. Secondo la “teoria post coloniale” il colonialismo non era scomparso ma si manifestava in altre forme di dominazione. Oggi, stiamo per entrare nell’epoca della dominazione regionale cinese e della tribalizzazione. Complice la pandemia, le vecchie categorie della geopolitica si trasformano. Ne sono simbolo metafisico i container usati dalla polizia thai per bloccare le strade durante le manifestazioni. Inutilizzati perché le compagnie di navigazione hanno diminuito il numero di navi in ​​mare.

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