Sulla repressione
La "sindrome cinese" in Myanmar
Le manifestazioni birmane vengono assimilate a quelle in Thailandia e Hong Kong, alla “Milk Tea Alliance” che definisce il fronte d'opposizione alla dittatura in quei paesi (dove il tè è consumato col latte condensato, a differenza della Cina), dove il Dragone vuole esportare il suo modello distopico e autocratico
Difficile stabilire che cosa abbia innescato questa sindrome cinese. Forse la straordinaria vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni di novembre. Forse qualche suo errore nella gestione della vittoria. Forse la paura dei generali di perdere potere e veder crollare i loro affari (tesi più accreditata). Quasi sicuramente ha contribuito la sua delegittimazione in occidente per la questione rohingya
La balcanizzazione della Birmania? No, la tribalizzazione. Una forma più primitiva di quanto avvenne in Jugoslavia.
Come fai a paragonare i serbi o i croati agli Shan o agli ex tagliatori di teste Wa? Segui il denaro! In questo paese il traffico di droga è molto superiore al prodotto interno lordo.
L’intervento delle Nazioni Unite? Non è possibile, però forse sì, ma a guida cinese.
E l’Asean? Non può farci nulla, nessuno vuole creare un precedente.
E gli Stati Uniti? I giovani sulle strade di Yangon sperano nel loro intervento. Sono ingenui e disperati. Ma se accadesse? Allora i cinesi si opporrebbero all’intervento. Allora scoppierebbe la terza guerra mondiale…
Sono stralci di telefonate, messaggi sui social, che si susseguono tra paranoia, paura, lucidità, cinismo, pietà e passione, tra sabato 27 e domenica 28, mentre tutta la Birmania è il teatro di scontri tra manifestanti, esercito, polizia, soldati travestiti da poliziotti, provocatori. E il bilancio dei morti e dei feriti sale rapidamente: dovrebbero essere almeno dieci, forse venti, più di venti, molte decine i feriti, molti quelli gravi. Che non si sa dove portare, dato che molti ospedali sono chiusi per sciopero, altri controllati. Le cifre spesso sono gonfiate, come i morti sono spesso spacciati per feriti, nell’incrocio di apparenti fake news, poi tragicamente confermate da inequivocabili immagini grondanti sangue e da fonti attendibili che però non si sa a quali fonti attingano.
Ancor più incerto il numero degli arrestati: un migliaio sembra credibile. Ma ciò che fa più paura – l’obiettivo è proprio questo – è che non si sa che cosa sia accaduto a quelli in prigione, quel carcere di Insein che negli anni più buoi era il luogo di Yangon dove si consumava l’orrore. Ma i giovani manifestanti non sembrano disposti a cedere. Nemmeno alla paura.
Tutta questa scena è una perfetta manifestazione della “sindrome cinese”. L’espressione divenne famosa negli 1979 per il film con Jane Fonda e Michel Douglas che denunciava i pericoli delle centrali nucleari. Si riferiva alla teoria secondo cui, in caso di un incidente con fusione del nocciolo, niente riuscirebbe a impedire che riesca a fondere la base della centrale e andare oltre, arrivando dall’altra parte del pianeta, fino alla Cina. La teoria non è scientificamente provata, ma si può paragonare alla situazione in Birmania per il suo oscuro catastrofismo. E soprattutto perché, anche in Birmania tutto sembra condurre alla Cina.
Non a caso le manifestazioni birmane vengono assimilate a quelle in Thailandia e Hong Kong, alla “Milk Tea Alliance” che definisce il fronte d’opposizione alla dittatura in quei paesi (dove il tè è consumato col latte condensato, a differenza della Cina), dove il Dragone che vuole esportare il suo modello distopico e autocratico. Se quell’alleanza sembra diluita tra i manifestanti, sembra rafforzarsi tra i militari che governano l’Asean e temono il contagio del dissenso. Nel caso birmano, inoltre, la Cina appare scagionata. Come ha dichiarato il suo ambasciatore Chen Hai, ciò che sta accadendo è “qualcosa che la Cina non avrebbe assolutamente voluto vedere”. Per la sofisticata politica di Pechino, Aung San Suu Kyi era ben più affidabile dei rozzi, corrotti, superstiziosi generali di Tatmadaw. Negli ultimi cinque anni la leader della National League for Democracy era stata spesso ospite di Xi, siglando numerosi accordi finalizzati allo sviluppo del China–Myanmar Economic Corridor, vitale per la Belt and Road Initiative. Ed era stata lei a firmare l’accordo definitivo per il porto di Kyaukpyu, al largo della costa del Rakhine, terminale della via della Seta sul Golfo del Bengala.
Il fatto che la Cina non abbia ispirato il golpe, tuttavia, non significa che sia disponibile a destabilizzare ulteriormente il paese sostenendo i dimostranti o un putsch di giovani turchi (ipotesi suggerite, sperate e temute). Più probabilmente cercherà di spingere i militari sulla via della distensione, dissuaderli da una repressione troppo violenta. Che poi è la stessa linea di indeterminatezza tenuta dalle nazioni dell’Asean, un “wait and see” in attesa di vedere chi cederà per primo. Come ricorda una fonte del Foglio, nell’88 i generali aspettarono oltre un mese prima di inasprire la repressione.
Per il momento qualunque previsione deve limitarsi alle prossime 24, 48 ore. Volendo gettare lo sguardo oltre, lo scenario diviene fantapolitica. Come quello di una divisione del paese in due, come accadde in Vietnam. Ma secondo una linea che va da sud-ovest a nord-est seguendo il percorso dei gasdotti e degli oleodotti tra Golfo del Bengala e Yunnan. La parte nordoccidentale ricadrebbe sotto il controllo cinese, mentre quella sudorientale verrebbe sottoposta a un accordo tra militari e diversi signori della guerra.
Difficile anche stabilire che cosa abbia innescato questa sindrome cinese. Forse la straordinaria vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni di novembre. Forse qualche suo errore nella gestione della vittoria. Forse la paura dei generali di perdere potere e veder crollare i loro affari (tesi più accreditata). Quasi sicuramente ha contribuito la delegittimazione di Aung San Suu Kyi in occidente per la questione rohingya. Quegli stessi che oggi vengono rimbalzati tra Indonesia, Malaysia e Bangladesh, i paesi fratelli nell’islam.