C'è un'app per controllare ogni cosa nella Cina paranoica di Xi

Giulia Pompili

Come funziona l'applicazione antifrode che Pechino usa, in realtà, per osservare e interrogare chi legge i giornali stranieri

Nella Cina di Xi Jinping c’è una app per ogni esigenza di controllo. Tra le più popolari in questo periodo, a leggere la stampa cinese, sembra ci sia un’applicazione dal nome molto poco accattivante (“National Anti-fraud Center”, il “centro antifrodi nazionale”). E’ stata sviluppata dal dipartimento per le Attività criminali all’interno del potentissimo ministero della Pubblica sicurezza di Pechino, e da marzo scorso, quando è stata messa online, risulta essere tra le più scaricate sugli smartphone dei cittadini cinesi: duecento milioni di volte, secondo i dati pubblicati dal tabloid Global Times.  L’app è promossa dal governo, e diverse figure pubbliche si sono mosse per convincere i cittadini cinesi a usarla: qualche tempo fa, per esempio, Policeman Chen, una specie di influencer che ha 21 milioni di visualizzazioni sui suoi canali di livestreaming, ha fatto una serie di video in cui esordiva con una domanda: “Hai già scaricato l’applicazione antifrode?”, ospitando diverse celebrità dell’internet cinese e parlando di casi reali di truffe, imbrogli online e tentativi di ricatti telematici (i malware, come quelli che hanno colpito la regione Lazio).

L’app funziona così: rispondete alla telefonata di un’agenzia che si spaccia per il vostro erogatore di energia elettrica, che magari dice di volervi mandare un operatore a casa per aggiornare il contratto. L’app rileva il telefono della chiamata entrante, sa che è un tentativo di truffa, e ve lo segnala, così potete rifiutare le loro offerte. La stessa cosa succede con le email di spam in entrata, oppure con gli sms. Utile, no? Utile, se non fosse che tutto quello che produce e promuove il governo di Pechino ha un interesse specifico anche per il Partito comunista cinese. 


Ieri il Financial Times ha messo in prima pagina un’inchiesta sulla popolare app, che secondo quanto raccontato alla corrispondente da Pechino Sun Yu serve anche per “identificare e interrogare le persone che hanno visitato siti di notizie finanziarie all’estero”.  Secondo quanto riportato dal quotidiano inglese, diverse società e governi locali hanno in realtà già reso l’applicazione obbligatoria per i propri collaboratori o per i residenti: “Un utente residente a Shanghai ha detto al Financial Times di essere stato contattato dalla polizia dopo aver eseguito l’accesso a un servizio di notizie finanziarie americano. Gli è stato anche chiesto se avesse contatti all’estero e se visitasse regolarmente siti web stranieri”. Un altro utente ha raccontato che “la polizia lo ha chiamato per quattro giorni consecutivi dopo che l’app ha mostrato che aveva visitato quelli che ha etichettato come fornitori di informazioni straniere ‘altamente pericolosi’, tra cui Bloomberg”. Online, sui social cinesi, si sono commenti molto favorevoli all’applicazione, ma ci sono anche parecchie critiche.

 

Non tutti i cittadini cinesi sono contenti di lasciare libero spazio al ministero della Sicurezza che, con la scusa delle frodi, cerca qualunque attività sospetta su uno smartphone. Il fatto che le critiche, anche in Cina, esistono, lo dimostra il fatto che il tabloid cinese in lingua inglese Global Times ieri ha pubblicato una specie di replica all’inchiesta del Financial Times. Nell’articolo sul quotidiano cinese, tra i più falchi quando si tratta di promuovere la propaganda di Pechino, si legge che la Cina è determinata a vincere la guerra contro le frodi online e che comunque la privacy degli utenti è tutelata, perché “la pagina di download offre un’informativa” sul tema, nella quale si specifica che “la raccolta e l’utilizzo delle informazioni personali saranno rigorosamente conformi ai principi di protezione dei diritti e degli interessi personali” che ne danno autorizzazione, e che queste informazioni sono usate “solo quando necessario”. Il 20 agosto scorso, la Cina si è dotata di una nuova legge sulla privacy che entrerà in vigore dal prossimo 1° novembre, approvata formalmente soprattutto per rispondere alle richieste dei cittadini cinesi che si sentono sopraffatti dall’intrusività del Partito. Ma si tratta di una cornice cosmetica: il ministero della Sicurezza di Pechino, infatti, può chiedere l’accesso a qualunque database e trasformare l’utente in una minaccia, anche se fosse soltanto perché legge Bloomberg e si informa sui siti di news americani per sfuggire alla propaganda.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.