La Cina a Cambridge

Così Huawei influenza l'università più prestigiosa al mondo

Giulia Pompili

Tre dei quattro direttori del Cambridge Centre for Chinese Management hanno collegamenti diretti con il colosso delle telecomunicazioni. La mappa del soft power cinese

Un centro di ricerca dell’Università di Cambridge dedicato allo studio del business cinese è fortemente influenzato dal colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei. La notizia è stata pubblicata ieri in prima pagina sul Times di Londra, con il titolo “Huawei si è ‘infiltrata’ a Cambridge”. Tre dei quattro direttori del Cambridge Centre for Chinese Management (Cccm), un centro dedicato allo “studio delle pratiche e delle strategie di gestione delle imprese cinesi”, hanno collegamenti diretti con Huawei. Il Cccm è stato lanciato nel 2018 e la persona che nel sito istituzionale è definita “rappresentante capo” in Cina è Yanping Hu, il cui nome appare online anche come “ex vicepresidente di Huawei”. E non è un caso se la sezione cinese del centro di ricerca britannico si trova a Shenzhen, nella capitale cinese del tech dove ha sede il quartier generale di Huawei.

 

La notizia diffusa ieri dal Times è solo l’ennesimo tassello di una mappa che sui media britannici circola già da qualche tempo. Che cosa succede quando i centri di ricerca, le accademie, i think tank, vengono finanziati massicciamente dalla Cina e dalle aziende cinesi legate al Partito comunista cinese? Nel Regno Unito e in altri paesi occidentali, da quando la nuova Cina di Xi Jinping ha mostrato il suo volto, c’è un dibattito sulla questione. A marzo il Telegraph ha pubblicato un’inchiesta in cui ha rivelato che diversi accademici britannici hanno pubblicato “dozzine di articoli firmati insieme con scienziati di un’istituzione cinese sanzionata dagli Stati Uniti perché lavora allo sviluppo dell’arsenale nucleare di Pechino”. Molti dei docenti inglesi, tra cui diversi professori di Cambridge, avevano lavorato per l’Accademia di Ingegneria fisica di Pechino “mentre ricoprivano incarichi nelle università britanniche”. Il governo di Pechino, secondo diversi esperti, sfrutta le collaborazioni con i centri di ricerca scientifica all’estero per reclutare docenti e ricercatori internazionali e aumentare lo sviluppo del suo arsenale – che oggi non è solo bellico, ma anche di ricerca spaziale, per esempio, e tecnologica. La Cina offre budget illimitati e visionari progetti, e programmi di merito come il Thousand Talents Plan, ma secondo diversi studi “invoglia in realtà gli scienziati a esportare segretamente conoscenza e innovazione in Cina”. 

 

Un’altra indagine del China Research Group, gruppo di ricerca dei conservatori inglesi, all’inizio di giugno ha rivelato che 20 tra le maggiori università inglesi hanno ricevuto circa 40 milioni di sterline come donazioni da aziende cinesi. Nel 2019 l’Università di Cambridge ha ricevuto un “generoso regalo da Tencent” per il finanziamento della Dowling Fellowship, una borsa di studio  di cinque anni per ricercatori di Ingegneria. Tencent e Huawei sono accusate di essere il braccio operativo del business di Pechino a livello internazionale, e di muoversi secondo le direttive del Partito soprattutto quando si parla di ricerca, innovazione e soft power. Tutte le università inglesi hanno un sistema di controllo delle donazioni che in teoria mette in sicurezza non solo la ricerca – quindi che le tecnologie sulle quali lavora una prestigiosa università europea non vengano rubate da altri centri di ricerca, magari per fornirle direttamente alle istituzioni militari – ma anche la libertà accademica. 

 

L’altro problema dei finanziamenti cinesi nelle università, oltre alla scienza e la tecnologia, riguarda infatti la ricerca e l’istruzione. Già in un rapporto del 2019, la Commissione esteri del Parlamento inglese parla degli Istituti Confucio – le scuole di promozione della lingua cinese all’estero finanziate da Pechino – che hanno strettissimi rapporti di collaborazione con le università ma spesso ne determinano anche gli indirizzi accademici: “Il professor Christopher Hughes della London School of Economics ci ha detto di aver visto studenti cinesi a Londra impegnati in attività per screditare i manifestanti di Hong Kong”, si legge nel documento del Parlamento inglese, “e i funzionari cinesi dell’Istituto Confucio confiscare documenti che menzionavano Taiwan a una conferenza accademica”. Da anni è aperta la riflessione sugli Istituti Confucio nelle università occidentali, e spesso si è risolta con la chiusura dei rapporti di collaborazione. 

 

All’inizio di luglio la ministra dell’Istruzione tedesca, Anja Karliczek, ha detto che le università in Germania sono troppo dipendenti dai fondi cinesi, soprattutto dagli Istituti Confucio, e quindi troppo poco indipendenti. Berlino ha lanciato un programma d’investimenti da 24 milioni di euro “per rafforzare la competenza indipendente sulla Cina”. In Italia, ogni università ha il suo Istituto Confucio all’interno di Lingue orientali, e il dibattito sull’opportunità di avere il Partito comunista cinese nelle nostre università non è mai davvero iniziato.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.