Evergrande in bilico

Il mattone cinese rischia il collasso. E pure Xi Jinping 

Ugo Bertone

Il capitalismo nazionalista di Pechino sopraffatto dai debiti rievoca la crisi dei subprime. La “prosperità comune”

Default. La parola più temuta dai mercati torna a circolare nella grande finanza e a coinvolgere, come dodici anni fa, i piani alti della politica. Ma stavolta nel mirino non ci sono il Tesoro americano e i banchieri di Wall Street. Al centro della scena c’è il ministero per l’Edilizia e lo Sviluppo urbano della Repubblica popolare cinese. Attorno al tavolo, assieme alla Banca popolare cinese, le più importanti banche del Dragone, chiamate al capezzale di Evergrande, in passato forse la più importante società immobiliare del pianeta, oggi senz’altro la più indebitata: 305 miliardi di dollari, per lo più in bond che cominciano ad andare in scadenza senza che in cassa ci siano i soldi nemmeno per far fronte agli interessi.

Cambia lo scenario: al posto dei grattacieli di Wall Street ci sono le piramidi di vetro di Shenzhen, la città simbolo della svolta di Deng Xiaoping. Ma il sit-in dei risparmiatori traditi sotto la sede del gruppo è già diventato un video virale che circola sulla rete. Una miccia che rischia di far esplodere una polveriera: Evergrande rischia, per mancanza di fondi, di non consegnare 800 giganteschi complessi immobiliari in 222 città della Cina. Migliaia e migliaia di appartamenti che i proprietari hanno pagato in anticipo fino all’ultimo yuan, ma che restano incompiuti perché Evergrande, posseduta da Hui Ka Yan, non ha pagato i fornitori. Come hanno fatto in questi anni molti protagonisti del miracolo del mattone, il  propellente della crescita della Cina – che vale il 38 per cento del pil e che si è trasformato in una gigantesca bolla immobiliare. Ogni yuan versato dalle famiglie è servito ai palazzinari di Shanghai per sottoscrivere nuovi debiti ed edificare nuove case. Oppure, come nel caso di Evergrande, per lanciarsi in speculazioni di vario genere, compresa una start up dell’auto elettrica giunta a quotazioni miliardarie senza aver sfornato una sola macchina. Oppure per finanziare avventure nel pallone (la squadra dell’immobiliare ha vinto lo scudetto trascinata da Fabio Cannavaro) in compagnia del socio e amico Zhang, l’indebitato presidente dell’Inter. Il tutto, forse, per ingraziarsi il presidente Xi Jinping, che oggi si trova a dover fronteggiare il rischio di una crisi politica oltre che economica. 

 

Xi ha cercato negli ultimi mesi di far pulizia e di liberarsi dalla morsa dei debiti. Ma forse si è mosso troppo tardi o ha sottovalutato la gravità della situazione: la stretta al credito imposta dalle autorità monetarie si è rivelata fatale per i big delle costruzioni, già colpiti dall’impennata della pandemia. E così, mentre le immobiliari rischiano di cadere come tanti birilli, s’impone la necessità di una ristrutturazione finanziaria che comporterà il massiccio impiego di capitali pubblici. Ma fino a che punto uno stato comunista può correre in soccorso di società private per evitare il collasso della Borsa? Non è  per caso che la recente campagna di Xi Jinping per la “prosperità comune” contro l’egoismo dei ricchi abbia preso velocità proprio mentre s’ingrossavano i nodi della disparità sociale. Nel mirino è finita la tecnologia, in odore di indipendenza dal potere, poi è toccato alle scuole private e  ai videogame, colpevoli di distribuire presso i giovani “l’oppio dei popoli”. “Quando un potente arriva a questo - ha commentato lo storico Niall Ferguson sul Nikkei Times - vuol dire che la situazione è davvero grave: la Cina ha problemi demografici e debitori insostenibili. E per questo reagisce aumentando gli apparati di controllo del consenso”. Una rivoluzione culturale piccola piccola, insomma.

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