Una sfilata, una protesta. La stilista Xin ci racconta la sua lotta al cotone lavorato nello Xinjiang

Priscilla Ruggiero

Un capo su cinque nel mercato globale dell’abbigliamento è contaminato dal lavoro forzato degli uiguri. “Ciò che possiamo fare noi nel nostro piccolo – dice la stilista al Foglio – è diventare più consapevoli come clienti”, ma non è così semplice

“Uiguri liberi. Porre fine a tutti i genocidi”, si legge sullo striscione della presentazione digitale di martedì scorso alla settimana della moda di Stoccolma del marchio Louise Xin Couture, dedicato ai campi di lavoro forzato nella regione dello Xinjiang. Le immagini della sfilata sono comparse sulla copertina del primo settembre di Vogue Scandinavia: “E’ un grande passo. Mai prima d’ora una grande rivista di moda in Scandinavia aveva parlato di uiguri” ha detto al Foglio la stilista cino-svedese. Per Louise Xin tutti abbiamo una parte di  responsabilità e dovremmo sentirci complici di questo crimine contro l’umanità. “Così ho deciso di utilizzare i miei vestiti per richiamare l’attenzione sul tema. L’obiettivo di quella presentazione era sensibilizzare il pubblico, ma ora il passo successivo è lavorare insieme per un cambiamento”, ha detto al Foglio.

Secondo Xin questo cambiamento deve avvenire soprattutto nel mondo della moda e nella consapevolezza di ogni consumatore, perché ormai è appurato che un capo su cinque nel mercato globale dell’abbigliamento sia contaminato dal lavoro forzato degli uiguri. “In questo momento molto probabilmente ci sono vestiti nel tuo e nel mio guardaroba che hanno avuto un punto di contatto con il lavoro forzato”, dice la stilista che lavora a stretto contatto con Jewher Tohti, la figlia dell’accademico uiguro in prigione – Ilham Tohti. Jewher dice che una delle ragioni per cui l’industria della moda non parla del tema è perché proprio l’industria tessile è una delle industrie più contaminate dal lavoro forzato. “L’84 per cento della produzione di cotone in Cina proviene dai campi di lavoro nello Xinjiang, ovvero il 22 per cento della produzione globale di cotone” dice Louise Xin citando la figlia del professore. Ed è per questo motivo che le aziende hanno paura di esprimersi sul tema: la Cina è un mercato enorme che detiene molte delle principali catene di approvvigionamento, e ha un grande potere. Poco dopo che la Svezia si è unita alle sanzioni contro gli alti funzionari coinvolti nelle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, la Lega della Gioventù Comunista Cinese ha lanciato un attacco online al rivenditore svedese H&M, prendendo di mira una dichiarazione di un anno prima che esprimeva preoccupazione per i diritti umani nella regione a minoranza musulmana. Il giorno dopo, H&M è scomparso dall’internet cinese.

“Ciò che possiamo fare noi nel nostro piccolo – dice la stilista al Foglio – è diventare più consapevoli come clienti”. Fare ricerche sulla provenienza dei vestiti prodotti dalle nostre aziende preferite e sostenere quelle che hanno intrapreso l’azione per non implicare in nessun modo il lavoro forzato nei loro prodotti. “Sostenere l’appello all’azione di End Uyghur Forced Labour”,  una coalizione di organizzazioni e sindacati per porre fine al lavoro forzato sponsorizzato dallo stato e ad altre violazioni dei diritti umani contro gli uiguri, e che aiuta le aziende a garantire che le loro catene di approvvigionamento non sfruttino il lavoro forzato. Ma non è così semplice, perché a oggi è sempre più difficile tracciare la provenienza del cotone che arriva sul nostro mercato e lo sforzo di rimuoverlo è in  contrasto con l’imperativo di produrre vestiti sempre più economici. I gruppi per i diritti umani hanno recentemente espresso frustrazione per il fatto che, sebbene gli Stati Uniti abbiano posto restrizioni sul cotone prodotto nello Xinjiang, è quasi impossibile vedere come vengono applicate. Secondo le stime, circa 1,5 miliardi di capi realizzati con il cotone dello Xinjiang sono entrati nel mercato americano e ci sono ostacoli significativi per sapere quanto il divieto abbia ridotto tale numero. La Cina infatti oltre a  essere il più grande produttore mondiale di filati di cotone è anche il più grande importatore, acquistando filo di cotone dall’India, dal Pakistan e dal Vietnam per integrarlo con il suo filo nazionale. E in questo modo  è sempre più difficile prendere parte al cambiamento di cui ci parla Louise Xin.

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