Mille e una corruzione. Perché non è una caratteristica solo dei paesi ex comunisti

Giorgio Arfaras

Non si sviluppa solo in paesi come Russia e Cina, ma anche assieme al capitalismo. Poi c’è un’eccezione, la Germania, per una ragione storica

I paesi dove il governo della legge (rule of law) è diffuso sono ancora pochi e lo sono da un tempo relativamente recente. Il grosso dell’umanità vive ancora, come è sempre vissuto, dentro un sistema definibile del patrono, laddove ciascuno, a ogni livello, ha un patrono cui riportare. Persino il despota, che è al vertice della piramide, riporta, perché non può andare contro la struttura che è in grado di deporlo.  Pagare o ricevere una tangente, usare il proprio ufficio per aiutare i parenti, gli amici e il giro allargato che possiamo chiamare dei clientes, sono dei mezzi per vivere o sopravvivere quando manchino le regole astratte e rispettate – la rule of law, appunto. Se qualcuno provasse a non seguire le regole del patronato sarebbe sanzionato dai parenti, dagli amici e dai clientes, che avrebbero meno di quel che potrebbero avere. Il sistema del patronato, sanzionando chi non ne vuol far parte, giunge così a un equilibrio, perché più o meno tutti vi partecipano e quindi diventa molto difficile da cambiare attraverso le sole dinamiche interne (fonte: Henry H. Hale, Patronal Politics). La corruzione che nasce dal patronato è molto difficile da misurare. Si possono usare i sondaggi, che però sono poco attendibili. Per esempio, in Italia, alla domanda se esiste corruzione la gran parte degli intervistati risponde che il paese è molto corrotto. Alla domanda se si è avuta esperienza diretta di corruzione le risposte affermative sono una frazione di quelle date alla prima domanda. Vi sono sistemi migliori dei sondaggi, che sono appunto troppo soggettivi, come il misurare la differenza fra le spese deliberate ed effettive nelle infrastrutture. La differenza, se elevata e soprattutto sistematica, potrebbe nascondere la presenza di tangenti (fonte: Emma Galli, La dimensione economica della corruzione).

 

Il singolo atto di corruzione è un comportamento economico razionale per chi ne fa parte. Ma non è un comportamento economicamente razionale per chi non ne fa parte. Chi non fa parte del singolo atto di corruzione è la maggioranza dei cittadini. La corruzione congela nella mani di alcuni le risorse che potrebbero essere usate altrimenti (e in modo proficuo) per tutti. Chi fa parte della corruzione potrebbe arrivare alla conclusione che guadagnerebbe in un sistema che funziona meglio per tutti, e non per alcuni. Si potrebbe arguire che in un mondo di agenti razionali e altruisti si arrivi alla rinuncia della corruzione per abbracciare il bene collettivo. In un sistema che funziona a favore di tutti, l’attivista della tangente partecipa per una piccolissima frazione della maggior ricchezza, mentre nel sistema della corruzione l’attivista ha una frazione maggiore della ricchezza. In quanto agente razionale, sceglie la corruzione.  Per questa ragione – la quota diversa di partecipazione nella divisione della ricchezza che alimenta la scelta a favore della corruzione, l’intervento sanzionatorio dello stato funziona molto meglio della ricerca del bene comune. L’attivista della tangente deve in questo caso scontare la differenza di ricchezza che ottiene partecipando al sistema delle tangenti rispetto a quanta parte – infinitesima, della ricchezza comune finirebbe per avere, con il rischio di finire nei guai. La corruzione potrebbe perciò ridursi, se non scomparire, ma non perché sia razionale da parte degli attivisti della tangente abbracciare il bene comune, ma perché l’acquisizione del bene che abbia origine nella corruzione diventa troppo rischiosa.

In Russia abbiamo da secoli un sistema di patronato che genera quel che oggi si chiama corruzione. Da qualche tempo, la burocrazia è il nuovo oligarca. I burocrati presi singolarmente sono infinitamente meno ricchi degli oligarchi, ma sono molto più numerosi. E dunque la corruzione pesa molto o forse di più (Sugli oligarchi e sulla burocrazia in Russia, Il Foglio del 25 agosto 2021).  Anche la Cina deve gestire i problemi che solleva la corruzione. Deng Xiaoping – il padre delle riforme cinesi – non aveva in mente un sistema politico suddiviso in potere esecutivo, legislativo, giudiziario, con la presenza di numerosi partiti in competizione. Era a favore del sistema economico privato lasciato libero, ma a condizione che quest’ultimo non cercasse di avere voce nella conduzione del sistema politico. Nulla di diverso da quanto affermò Vladimir Putin appena dopo la sua elezione a presidente, quando dichiarò che il sistema economico sarebbe stato lasciato libero a condizione che non si ingerisse nella vita politica. Il progetto iniziato da Deng era quindi quello di un sistema a partito unico con l’economia indipendente ma sempre sotto osservazione e, in ogni caso, privo di un efficace governo della legge. 

 

Il governo della legge funziona se è applicata a tutti senza riguardo al peso politico di ciascuno. Ciò può mettere in difficoltà i maggiori beneficiari dello sviluppo economico cinese, l’élite politica e amministrativa. La burocrazia, in forma tecnocratica, lo guida. Per essere un motore funzionante, la burocrazia tecnocratica deve selezionare i propri membri con criteri di merito. Ma la selezione per merito non basta, perché esiste anche la legittimità. Lo sviluppo economico migliora la vita di tutti, ma alimenta anche una forte divaricazione della ricchezza a favore di alcuni. La legittimità politica del sistema cinese è ottenuta non solo con una crescita elevata, ciò che avviene anche grazie a una burocrazia selezionata sul merito, ma anche frenando la divaricazione della ricchezza. In particolare, quando quest’ultima si forma non per meriti imprenditoriali, ma con la corruzione (fonte: Branko Milanovic. Capitalism, Alone). La corruzione, come avevamo visto, si combatte veramente solo con il governo della legge, con ciò che rende pericoloso perseguirla. Ma il governo della legge è tale solo se la sua applicazione è astratta e impersonale. Perciò, se la si volesse applicare, si dovrebbe rivedere il funzionamento del sistema cinese, che vede al governo un solo partito senza un potere giudiziario autonomo. Questa caratteristica del potere cinese spiega la natura della lotta contro la corruzione per come è condotta in Cina. Con le campagne di rieducazione, con la persuasione, con pene durissime. In queste campagne sono coinvolte moltissime persone, perfino ai piani alti del partito. Ma la campagna contro la corruzione è condotta dal partito unico, o meglio, da una sezione del suo gruppo dirigente, per cui si arguisce che quest’ultima non possa che avere un occhio di riguardo per le proprie esigenze. In Russia, ma in minor misura in Cina, si ha un grande spostamento di ricchezza all’estero. Ciò avviene in parte come investimento, per esempio l’acquisizione di un’impresa estera, in parte come misura precauzionale nel caso cambiassero le fortune politiche del gruppo o dei gruppi che sono al potere in un certo momento, il che porterebbe al sequestro degli averi degli sconfitti.  

Osserviamo questa seconda tipologia di spostamenti. E’ razionale che i frutti della corruzione si spostino all’estero tanto più facilmente tanto minore è la democrazia del paese di origine. Se la democrazia è il sistema che consente il ricambio della classe dirigente senza spargimento di sangue, allora un autocrate e il suo seguito hanno tutto l’interesse a stipare i denari all’estero per sopravvivere, fosse mai che possano perdere il potere. Infatti, molti dittatori con il loro seguito hanno portato le proprie fortune nei paesi democratici e nei paradisi fiscali, che sono comunque emanazioni dei paesi democratici. Un politico eletto democraticamente, una volta che abbia perso il potere, può ritirarsi a vita privata senza paura di ritorsioni. Perciò, nella vicenda dei conti esteri di dubbia origine si ha una giustificazione razionale – s’intende una razionalità rispetto alla scopo, per gli autocrati, ma non per i politici democratici. Che poi l’autocrate, perso il potere, difficilmente riesca a scappare è altra storia. Da notare che gli autocrati e il loro seguito non portano la propria ricchezza in altri paesi autocratici, perché ci sono meno occasioni di investimento e soprattutto minori garanzie legali. 

 

La corruzione non è una caratteristica dei soli giganti ex o ancora comunisti. Inoltre, non abbiamo al mondo solo la corruzione. Esiste l’appropriazione di rendite, ossia di profitti che non si ottengono in concorrenza, attraverso la collusione di alcuni settori economici con il sistema politico. Questo meccanismo collusivo ha un nome: capitalismo dei compari (crony capitalism). Il primo segnale che denuncia l’esistenza del capitalismo dei compari è dove un paese si trova nella classifica della corruzione e se la sua economia è dominata dalle industrie estrattive. In questo caso, è frequente che ci sia collusione fra élite politiche ed economiche. Inoltre, e sempre in questo caso, le élite portano una parte della ricchezza cumulata fuori dal paese. Il secondo segnale è dove si trova un paese negli indici di governo della legge. Se questi indicano un basso punteggio, un piccolo gruppo di persone può accumulare delle fortune che, di nuovo, non sono investite solo nel paese, ma anche all’estero. Il terzo segnale è se un paese esporta materie prime o prodotti industriali a basso valore aggiunto. Il quarto segnale è la misura dell’ineguaglianza di reddito, che è tanto maggiore quanto minore è la libertà di competere fra le imprese. (La ragione è un sistema bloccato che genera rendite a favore di pochi e che, al contempo, impedisce l'ingresso di nuove imprese. L’ingresso di queste ridurrebbe la diseguaglianza. Quest’ultima si riduce perché le nuove imprese schiacciano o eliminano le rendite di quelle vecchie, rendite che sono all’origine della vecchia ricchezza, che è accumulata da tempo e quindi è cospicua. La ricchezza delle imprese dominanti si contrae, mentre quella nuova deve ancora accumularsi. In questo modo si riduce la diseguaglianza). I primi tre segnali sono tipici dei paesi con gradi diversi di sviluppo, mentre il quarto lo troviamo anche nei paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, per esempio, il capitalismo dei compari si sviluppa con i contributi (soprattutto dei cittadini facoltosi) alle campagne elettorali, con la forte pressione (detta lobbying) sui membri del Congresso e sugli organi di controllo della concorrenza, e con il passaggio (detto revolving door) fra gli incarichi di governo e quelli privati. Va da sé che alcuni settori beneficiano più di altri nell’estrazione delle rendita perché sono regolati o legati all’intervento pubblico più di altri. Sono la finanza, l’energia, le infrastrutture e il settore immobiliare. Misuriamo, per quel che è possibile, il fenomeno: a) Si prendono i patrimoni di tutti i multimilionari, indipendentemente dal settore di appartenenza; b) si sommano i patrimoni quando hanno origine nei settori tipici del capitalismo dei compari, quelli definiti prima, e quando hanno origine negli altri settori; c) li si divide fra settori protetti e non e li si mette in rapporto con il pil del paese d’origine della ricchezza; infine, d) si ottiene la classifica (fonte, The Economist, The Party Winds Down). Questa classifica non è un indice di corruzione, perché i multimilionari possono essere un tramite trasparente fra il privato ed il pubblico. La classifica è un modo per osservare la concentrazione della ricchezza quando si abbia una concorrenza limitata o nulla che trae origine dai settori protetti.

I paesi con la massima concentrazione della ricchezza nei settori protetti sono distribuiti lungo gradi diversi di sviluppo, ma non definitivamente ricchi. In questi paesi i multimilionari, la cui rendita ha origine nei settori protetti, controllano in media il 50 per cento della ricchezza complessiva dei multimilionari. Nel caso dei paesi definitivamente sviluppati la percentuale è modesta, in media intorno al 15. Il paese con la massima concentrazione della rendita è la Russia, quello con la minore concentrazione è la Germania. Questa comparsa inattesa della Germania come il paese fra quelli sviluppati con l’economia meno collusiva con lo stato merita un approfondimento.

Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, il ciclo economico era interpretato al modo della scuola austriaca, ai tempi seguita dai dirigenti politici statunitensi fino al New Deal, e da quelli tedeschi fino alla Volkswirtschaft nazista. In breve: le banche prestano troppo denaro – come volume e con tassi bassi – e ciò spinge l’economia lungo un sentiero di crescita insostenibile, perché incentiva gli investimenti poco efficienti e molto rischiosi: il boom. Alla lunga, la crescita alimentata con questo meccanismo diventa insostenibile, sicché le banche, alla fine, alzano i tassi e riducono il credito. L’economia allora s’ammoscia: il bust. L’economia, grazie alla crisi, e senza intervento dello stato, elimina le inefficienze che aveva accumulato e quindi può ripartire più solida. 

La grande crisi degli anni Trenta e le vicende successive alla Seconda guerra mondiale spingono all’interventismo, e così l’idea dei mercati che si auto-equilibrano con il potere politico che non interviene nel loro funzionamento passa in cavalleria. Le idee austriache sono sopravvissute al secondo conflitto mondiale grazie alla Germania, che poi le ha fatte accettare, ma non del tutto, all’Unione Europea. Sopravvissute con qualche ritocco non marginale: la Germania ha, infatti, salvato con dovizia di mezzi le sue banche che si erano impelagate con i mutui ipotecari statunitensi. La preferenza tedesca per le teorie austriache la ritroviamo nella dottrina dell’Ordoliberalismus, secondo cui il mercato va regolato (ma non guidato) con i monopoli che vanno, se non eliminati, almeno controllati, e con lo stato che interviene solo in favore di chi ha davvero bisogno. Perché questa ossessione contro i monopoli, contro il crony capitalism? Prima della Seconda guerra mondiale e per tutto il secolo precedente, la Germania era stato un paese dirigista, con la forzatura ultra dirigista del periodo nazista. L’eliminazione del nazismo ha spinto i tedeschi a limitare l’intervento pubblico per impedire la formazione di uno stato forte, che possa diventare totalitario. Con la difesa del mercato che assume la forma dell’Ordoliberalismus (fonte: M. Brunnermeier, H. James, J-P. Landau, The Euro and the Battle of Ideas).

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