Un anno di terrore bielorusso

L'Europa fa i conti (difficili) con Lukashenka, il dittatore sulla sua porta

Micol Flammini

Il 9 agosto del 2020 si tennero le elezioni che Lukashenka pretende con ferocia di aver vinto. Le proteste  non si sono mai fermate, la repressione è aumentata e Bruxelles ha un compito importante: accelerare la fine del regime. I tre fronti della battaglia

In Bielorussia la carica più alta è quella del presidente che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere eletto ogni cinque anni. Sulla carta, adottata nel 1994, c’è scritto che sono i cittadini a decidere a chi affidare la gestione dello stato. Quella Costituzione, che i bielorussi fecero di tutto per adattare a quelle dei paesi europei, però è stata modificata già due volte e per due volte consecutive il presidente che governa la nazione da ventisette anni ha fatto in modo che il potere nelle sue mani diventasse sempre di più. Che si concentrasse a tal punto da iniziare a vedere la carica di presidente della Bielorussia come una questione personale, al massimo dinastica, da trasmettere da Aljaksandr Lukashenka ai suoi figli. Di lasciare il suo potere, o almeno una parte, il dittatore di Minsk non ha mai avuto intenzione, né di lasciarlo ai suoi eredi, né tantomeno, come indica la Costituzione, di lasciarlo al legittimo vincitore delle elezioni presidenziali. Le ultime si sono tenute il 9 agosto dello scorso anno e, prima ancora che i risultati venissero comunicati, Lukashenka si proclamò vincitore con l’80 per cento dei voti e ordinò la distruzione delle schede elettorali. Da alcuni seggi che avevano già iniziato a eseguire lo spoglio, uscivano voci contrarie: era in vantaggio la sua sfidante Svjatlana Tikhanovskaya. 

 

Lukashenka da un anno tiene in ostaggio la nazione con l’unico fine di preservare se stesso e il suo potere e da un anno ha ingaggiato una lotta pericolosa con chiunque cerchi di frapporsi tra lui e il suo obiettivo. Soprattutto con l’Unione europea, che per anni ha guardato crescere, inciampare su se stesso, rialzarsi questo presidente così volubile; ha guardato con interesse l’incostanza dei suoi rapporti con la Russia di Vladimir Putin; ha seguito con disattenzione le sue giravolte politiche, i suoi stravolgimenti costituzionali e con curiosità i suoi balbettii a sostegno degli ucraini che si ribellavano a Viktor Yanukovich e chiedeva di entrare a far parte di un altro mondo, quello occidentale, quello dei diritti e delle democrazie. Bruxelles non si è accorta del passaggio da presidente a dittatore e dopo le elezioni dello scorso anno si è ritrovata non soltanto ad avere a che fare con un altro autocrate, ma ad avercelo alle porte questo autocrate, talmente vicino da creare problemi anche sul suo territorio. 

Il punto di dolore tra l’Unione europea e il dittatore Aljaksandr Lukashenka ha la forma di un confine, quello che separa la Lituania e la Bielorussia e che il dittatore ha usato per mettere in scena le sue ripicche, i suoi ricatti, le sue vendette. Negli ultimi mesi più di quattromila iracheni sono entrati illegalmente sul territorio europeo attraverso quel confine usando una rotta incentivata dal regime di Minsk. Lukashenka non è certo il primo ad aver capito quanto i migranti possano essere un’arma fortissima per destabilizzare i paesi membri, ma ha agito con una rapidità inaudita riuscendo in breve tempo, secondo fonti raccolte dal governo lituano, a organizzare un traffico di migranti tale da far preoccupare il paese baltico e Bruxelles. Era la sua ribellione alle ultime sanzioni e non si aspettava che però la Lituania, almeno per ora, riuscisse a controrganizzarsi. 

 

Da oggi fino al 15 agosto tutti i voli da Baghdad per Minsk sono stati cancellati, a metà luglio il ministro degli Esteri di Vilnius, Gabrielius Landsbergis, si era recato in Iraq per parlare con la sua controparte. La visita non ha sortito effetti immediati, ma sembra che sia stato in seguito proprio il primo ministro iracheno Mustafa al Kadhimi a ordinare di chiudere i voli. Dopo la notizia, il confine tra Lituania e Bielorussia si è trasformato in una terra perduta, con Vilnius che non lascia più passare nessuno e Minsk che non accetta indietro gli iracheni, nonostante abbiano un regolare visto bielorusso. La possibilità di un accordo tra un paese europeo e l’Iraq avrebbe dovuto mostrare a Lukashenka che il mondo attorno a lui è connesso, va avanti, mentre lui sta condannando la sua nazione all’isolazionismo, a un rapporto di scambio con il vicino russo in cui Mosca ha molto da prendere. 

La crisi dei migranti con l’Ue è stata innescata dalle sanzioni che Bruxelles ha imposto al regime di Minsk dopo il dirottamento dell’aereo Ryanair che volava da Atene a Vilnius con a bordo il giornalista bielorusso Roman Protasevich. Gli sgherri di Lukashenka, gli uomini dei servizi segreti del Kdb, avevano seguito il ragazzo in Grecia poi, con un falso allarme bomba e alzando in volo un Mig-29, hanno costretto l’aereo ad atterrare a Minsk. Lui è stato portato via e arrestato assieme alla sua fidanzata, tutti gli altri passeggeri, cittadini europei, sono stati trattenuti per ore in aeroporto. Bruxelles ha deciso di reagire e soprattutto di cambiare strategia con il dittatore. Prima del dirottamento era convinta di poterlo blandire, aveva emesso sanzioni contro altri funzionari bielorussi ma senza toccare Lukashenka e la sua cerchia ristretta, di poterlo ancora tenere vicino, scendere a patti, di poter usare la carota più che il bastone. Lo vedevano ancora come un cuscinetto utile tra l’Ue e la Russia. La pericolosità di Lukashenka, il suo delirio di sopravvivenza al potere però avevano appena dimostrato di non essere più contenibili dentro ai confini di una nazione stremata e l’Ue ha deciso di agire con delle sanzioni vere, in grado davvero di mettere in pericolo l’economia bielorussa. 

 

Le sanzioni, come osserva Artyom Shraibman dell’istituto Carnegie di Mosca, non hanno mai cambiato i regimi, sono uno strumento che funziona sulla lunga distanza e tra economisti ed esperti, in tanti scommettono sul fatto che il regime non potrà durare più di un altro anno. A breve termine le sanzioni portano soltanto più repressione e Lukashenka ha reagito aumentando gli arresti e le violenze. Ma anche di fronte al collasso economico non è detto che Lukashenka accetterebbe di lasciare il potere. Lo abbiamo visto finora diventare sempre più pericoloso: il dirottamento, il tentato rapimento dell’atleta Krystyna Timanovkaya alle Olimpiadi, i sospetti per la morte dell’attivista Vitali Shishov trovato impiccato a Kiev. Il dittatore finora ha messo l’Ue davanti all’impossibilità di immaginare quale sarà la sua prossima mossa, fino a dove si spingerà. 

 

Sono i tre i fronti attraverso i quali, secondo gli attivisti, è importante sfidare Lukashenka. Il primo è quello interno, sono i bielorussi, sono le proteste, è il sacrificio di un popolo che da un anno viene arrestato, torturato, condannato, e anche ucciso. L’altro è quello esterno, e sta all’Unione europea e agli Stati Uniti non cedere, aumentare la pressione, seguire con attenzione tutto quello che accade nel territorio di quel vicino dell’est che fino allo scorso anno era considerato diverso, un residuo sovietico, ma che nessuno valutava come pericoloso, anzi utile nel gioco contro Mosca. Il terzo fronte è lo stesso Lukashenka, che vede la sua fine rincorrerlo, avvicinarsi, e reagisce d’affanno, aumentando la tensione e la pericolosità del suo regime. Pensa che se deve venire giù lui, dovrà venire giù tutta la Bielorussia. E’ una dittatura che ha perso ogni lucidità e c’è un’immagine che più di tutte segna il momento in cui Lukashenka ha perso il controllo del paese e di se stesso: lo scorso anno si fece filmare mentre sorvolava Minsk in protesta con un kalashnikov in mano, si rivolgeva ai suoi cittadini chiamandoli “ratti”. Le immagini arrivarono anche in Europa, ma c’era ancora un senso di attesa, di speranza, di poter scendere a patti. 

 

La repressione si sta intensificando, Lukashenka prima se la prendeva con gli oppositori, poi ha iniziato a prendersela con i cittadini comuni e adesso sta iniziando a colpire anche i suoi collaboratori, i meno zelanti, quelli che non stanno dietro ai suoi cambiamenti d’umore e di linea. Non c’è più alcun controllo in Bielorussia e in un anno l’Ue ha convissuto con un dittatore alle porte, cercando di punire, quando ha potuto, anche se in ritardo, di dare una mano a chi fuggiva, di reagire, come al confine della Lituania. Ma se è vero che sarà l’implosione a condannare Lukashenka, quell’implosione va accelerata. E’ questo il secondo fronte. E’ questo il ruolo dell’Ue. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.