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Quanti danni fa all'Europa il dittatore di Minsk

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Così Lukashenka ha imparato l’aggressività e l’impunità da Turchia e Russia. Un viaggio dal vicino dell’est, sventolando una pantofola

Un anno fa di questi tempi il simbolo dell’opposizione al regime in Bielorussia era la pantofola. Centinaia di persone scendevano in piazza sventolando pantofole per protestare contro Aljaksandr Lukashenka, la sua dittatura, i suoi inviti a combattere il Covid bevendo vodka e facendo la sauna, contro il negazionismo che è la cifra di questo signore di quasi settant’anni che a un certo punto della sua carriera da autocrate s’è cambiato anche la data di nascita – si fa chiamare “l’uomo del popolo”, reprime il suo popolo da decenni, ora è soltanto più sfacciato, forse perché impunito. La protesta delle pantofole era stata organizzata da Syarhey Tikhanovski, un blogger che teneva conto delle nefandezze del regime e che diceva: con le nostre pantofole possiamo schiacciarlo, questo potere meschino e menzognero. Fu arrestato a tre mesi dalle elezioni, in quella che sarebbe poi diventata la prima retata del regime ai danni dell’opposizione e del popolo bielorusso: Svjatlana Tikhanovskaya ha preso il posto del marito in prigione come leader della resistenza, è dovuta scappare da Minsk, la repressione continua ancora oggi. Come spesso ci capita, noi europei accogliemmo le ciabatte e le retate con sospiri di indignazione e una sostanziale indifferenza: le proteste nel nostro est sono sempre problematiche, ci costringono a guardare in faccia la Russia e i suoi progetti anti europei e ancor più a dover fare i conti con una dittatura sulla porta di casa. Tendiamo a voltarci altrove, e ancor più lo abbiamo fatto nel 2020, in mezzo alla pandemia, con quella rassegnazione che fa infuriare i popoli che insorgono, che si ribellano, che protestano pacifici pure quando vengono arrestati, picchiati, stuprati, torturati, lasciati morire, e che vorrebbero da noi soltanto una solidarietà fattiva e costante. E’ passato quasi un anno dalle elezioni rubate da Lukashenka, siamo andate a studiare il costo umano e politico di una dittatura sull’entrata a est dell’Ue: abbiamo una pantofola in mano, se serve. 

 


Lukashenka non è  scaltro, ma è un dittatore longevo che in questi anni ha avuto modo di studiare gli errori e i successi degli altri 


 

Il playbook di Erdogan

Dopo aver colpito il suo popolo, che continua impunemente a colpire, arrestare e torturare, Lukashenka ha deciso di iniziare a vendicarsi delle prime, blande contromisure che l’Ue ha adottato contro la Bielorussia. Dopo le ultime sanzioni imposte al regime di Minsk da parte dell’Ue,  ha promesso che avrebbe aperto le porte della Bielorussia ai migranti diretti verso la “calda, accogliente e illuminata Europa”. In poche settimane la Lituania e la Polonia  si sono trovate davanti a una crisi migratoria che non hanno  i mezzi e neppure l’esperienza per fronteggiare. Lo schema orchestrato da Lukashenka funziona grosso modo così: una compagnia di viaggi bielorussa organizza il trasporto fino a Minsk di cittadini iracheni, afghani e ceceni. Da Minsk i migranti arrivano  alla frontiera dove le guardie  bielorusse chiudono un occhio e li lasciano passare. Il viaggio ha un costo, che secondo il governo lituano potrebbe arrivare fino ai quattromila dollari. La soluzione trovata da Vilnius è quella di costruire un muro. Dopo aver cominciato con la Lituania, il dittatore ha iniziato a prendersela con l’altro stato europeo molto attivo nel promuovere le sanzioni: la Polonia. Varsavia si è ritrovata a fronteggiare l’arrivo di afghani e ceceni, più di cento dalla seconda settimana di luglio e le autorità polacche, come quelle lituane, hanno parlato di un traffico organizzato da Minsk. Sul confine verde tra Polonia e Bielorussia non è ancora emergenza nazionale, come è invece in Lituania, ma c’è molta agitazione e  il ministero degli Esteri polacco ha accusato Minsk di funzionare come  un ufficio turistico per clandestini. Aprire e chiudere il serbatoio dei migranti come sistema per ricattare l’Ue non è certo una tattica inventata da Lukashenka, che è un dittatore non tra i più scaltri, ma molto longevo e questa longevità gli ha dato modo di studiare le strategie altrui. Usare il ricatto dei migranti è un metodo mutuato dal presidente turco Erdogan, che sa bene quanto l’Ue tema una nuova crisi migratoria.  

 

Il playbook di Putin

Il 23 maggio, le autorità aeroportuali di Minsk hanno dirottato un volo Ryanair che volava da Atene a Vilnius e sul quale viaggiava anche Raman Pratasevich, fondatore  di Nexta, attivista e tra i maggiori organizzatori delle proteste. Il regime, dopo aver intimato all’equipaggio di  atterrare per il rischio di una bomba a bordo, ha inviato un Mig-29 che ha scortato l’aereo fino all’aeroporto di Minsk. Una volta atterrato, gli agenti dei servizi segreti, gli sgherri di Lukashenka, hanno arrestato Pratasevich e la sua fidanzata. E’ stato un atto di pirateria che è costato a Lukashenka contromisure da parte dell’Ue. Soltanto una nazione si è mostrata solidale con lui:  la Russia di Vladimir Putin. Il Cremlino  da agosto è l’unico interlocutore importante di Lukashenka, che ha cercato di imitare Putin nei suoi ricatti all’Ue e  nel gioco dell’impunità, di cui il presidente russo è maestro. Putin dal canto suo ha avuto l’occasione di studiare cosa può avvenire se la piazza prende il sopravvento, se la protesta diventa un evento nazionale che coinvolge tutte le generazioni e le classi sociali. Il copiarsi e il rincorrersi è reciproco tra Putin e Lukashenka, che ha cercato di reprimere, cacciare, stigmatizzare l’opposizione prima che nascesse un Alexei Nalvalny in Bielorussia. Per questo ha fatto di Raman Pratasevich il traditore esemplare, il fuggiasco  che  nelle mani del regime dice che Lukashenka è un uomo “con le palle d’acciaio”, lo dice trattenendo le lacrime e con i segni delle torture ancora sul corpo. Ora Pratasevich è agli arresti domiciliari e il regime non lo ha lasciato in pace: è tornato online, ma parla con una voce non sua. Un Navalny non c’è in Bielorussia, e probabilmente è questa la forza dell’opposizione, che combatte compatta, senza personalità preponderanti, ma con obiettivi che sono di vita o di morte. Putin anche sta rimanendo sempre più solo e nonostante non abbia mai amato il collega di Minsk, ora gli concede lunghi incontri, passeggiate in dacia e gite sulle nevi. L’ultimo c’è stato questa settimana: la Russia ha concesso alla Bielorussia la possibilità di acquistare il gas nel 2022 alle stesse tariffe del 2020. 

 

E l’Ue che fa?

Dalle elezioni presidenziali dell’agosto del 2020, l’Unione europea ha adottato quattro serie di sanzioni contro funzionari o entità del regime di Lukashenka, cui si sono aggiunte misure contro l’economia bielorussa, senza tuttavia riuscire a invertire la marcia della repressione. L’approccio scelto all’inizio era stato quello incrementale del bastone e della carota per offrire al dittatore la possibilità di redimersi. La prima lista nera adottata il 2 ottobre scorso includeva soltanto 40 funzionari responsabili della repressione e delle intimidazioni durante le manifestazioni, ma Lukashenka era rimasto fuori perché gli europei erano convinti che non si sarebbe buttato nelle braccia di Putin. La realtà ha poi preso il sopravvento sui grandi ragionamenti diplomatici. Il leader bielorusso si è affidato alla protezione del presidente russo. La repressione si è accentuata. E così il 16 novembre i 27 si sono rassegnati ad aggiungere alla loro lista nera altri 15 esponenti del regime, tra cui  Lukashenka e il figlio Viktar (nella sua qualità di consigliere per la Sicurezza nazionale). Il round successivo di sanzioni è stato approvato appena un mese dopo, il 17 dicembre, quando l’Ue ha deciso di prendere di mira anche i soggetti economici e imprenditori di spicco che sostengono il regime: 29 funzionari, giudici e imprenditori e 7 entità (società di armi e immobiliari) sono state inserite nella lista nera.  E’ stato il dirottamento del volo Ryanair a segnare il cambio di passo nell’apparato sanzionatorio dell’Ue. A giugno l’Ue ha vietato l’accesso alle compagnie bielorusse e il sorvolo della Bielorussia ai vettori europei, ha inserito altri 78 funzionari e 8 entità nella lista nera e ha deciso l’introduzione di sanzioni economiche per “mettere in ginocchio” il regime di Lukashenka, come ha spiegato l’Alto rappresentante, Josep Borrell. Come? Embargo su apparecchiature, tecnologie o software destinati al controllo o l’intercettazione di internet e delle comunicazioni telefoniche; restrizioni agli scambi di prodotti petroliferi, cloruro di potassio  e di beni utilizzati per la produzione di prodotti del tabacco; limiti all’accesso dei mercati dei capitali dell’Ue; interruzione delle erogazioni della Banca europea per gli investimenti. Altre sanzioni potrebbero arrivare nei prossimi mesi. Borrell ha indicato che la lista nera potrebbe essere ulteriormente allargata. Finora le sanzioni non hanno prodotto il risultato auspicato. La Commissione a fine maggio ha presentato un pacchetto da tre miliardi di euro di sostegno economico per una “futura Bielorussia democratica”. Ma l’offerta è più simbolica che altro. Il 28 giugno il ministero degli Esteri di Minsk ha annunciato la sospensione della partecipazione della Bielorussia all’Iniziativa della Partnership orientale dell’Ue. Per quanto simbolico, anche questo gesto è carico di significato. La Partnership orientale è il progetto con cui l’Ue doveva ancorare le ex Repubbliche sovietiche rimaste nell’orbita di Mosca, ma che aspirano all’Europa: Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Moldavia, oltre alla Bielorussia. Ma l’Ue non ha mai voluto offrire una chiara prospettiva di adesione a questi paesi, lasciandoli esposti alle influenze e prepotenze di Mosca.

 


Dalle elezioni rubate, l’Ue ha adottato quattro serie di sanzioni. All’inizio credeva di poter redimere il dittatore 


 

Il processo degli studenti

E’ in corso a Minsk il processo agli studenti arrestati soprattutto alla fine del 2020 e all’inizio del 2021. Contano i giorni della loro detenzione, raccontano degli amici che prima erano con loro e ora non ci sono più, sanno che rischiano di dover scontare ancora molti mesi di carcere, e sanno anche che basterebbe ammettere di aver commesso qualche reato per avere pene più contenute. Ma nel giorno in cui hanno potuto dire “le loro ultime parole”, hanno scelto di pronunciare quelle per loro più importanti. Alana ha detto: “Sono contro la violenza, ho sostenuto gli studenti che si sono battuti per ottenere la possibilità di un dialogo con i dirigenti dell’università. Non confesserò reati che non ho commesso e non ho alcun rimpianto”. Jana ha detto: “Oggi celebro gli otto mesi dall’inizio della nostra detenzione. Abbiamo passato 243 giorni in un posto pieno di oscurità, paura e orrore. Ma questi otto mesi non sono riusciti a convincermi del fatto che la paura possa distruggere la fiducia. Per questo e per un centinaio di altre ragioni la mia ultima parola è: libertà”. Anastasia ha detto: “Ho 19 anni, sono sempre stata lontana dalla politica, ma ci sono cose che capisci a qualsiasi età. Ho protestato contro le autorità, protesto contro la violenza, l’umiliazione, l’assenza della legge e le bugie. Perché non posso voltarmi dall’altra parte”. 

 

In questi mesi abbiamo raccontato le sofferenze bielorusse, la tenacia dei manifestanti, le ragazze di Minsk, i colori proibiti dal regime, che sono il bianco e il rosso: i colori della nuova Bielorussia, i cuori di chi finiva dietro le sbarre in tribunale e i polsi di Raman martoriati dalla tortura. Senza che ce ne accorgessimo tutto questo male e tutta questa battaglia stanno diventando la storia di un paese alle porte dell’Ue che si sta trasformando in una nazione-prigione. Sta per uscire il primo film dedicato a questa storia che non è ancora finita, si intitola “Minsk”, è girato in Estonia, e racconta la storia di Pasha e di Yulia, una coppia giovane, lei incinta, che si è ritrovata nel mezzo delle proteste, delle botte e del sangue. Una storia che oggi accomuna gran parte della popolazione bielorussa. Chi ha girato il film quel sangue lo ha visto e quelle botte le ha prese e ha detto  che raccontare  è stato durissimo: hanno fermato più volte le riprese perché le scene erano troppo dolorose per chi le aveva vissute. Non ce ne siamo accorti, distratti come ci capita spesso, ma la storia di questo ultimo anno della Bielorussia è già memoria, e fa male.

(ha collaborato David Carretta)

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