Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez è diventato il leader del Psoe per la prima volta nel 2014 (foto LaPresse) 

I pieni poteri di Pedro Sánchez

Guido De Franceschi

Risolta la legge Finanziaria, il premier spagnolo ha dato una solidità insperata al suo mandato. Ora anche gli altri leader politici devono decidere se e come diventare grandi

Bisogna metterci Pedro, Pablo, l’altro Pablo e Santiago. E poi, un po’ discosta da questo gruppo, dobbiamo inserire anche l’unica donna, Inés. Questa è la fotografia di gruppo dei leader politici spagnoli che ora dovrebbero approfittare della nuova consapevolezza portata dal voto sulla legge Finanziaria – e cioè che il governo guidato da uno di loro, il socialista Pedro Sánchez, è destinato a durare un bel po’ – per riorganizzare con calma la loro strategia nazionale. In questo periodo, i cinque potrebbero provare a disintossicarsi dalla lotta parlamentare day by day per impegnarsi a ridisegnare un ruolo di medio-lungo orizzonte, per loro stessi e per i loro partiti. E, in realtà, al bordo della fotografia, vanno poi messi anche Oriol e Carles: questi due leader politici sono fisicamente assenti (il primo perché è in prigione, l’altro perché è in esilio), e quindi la loro immagine dobbiamo scontornarla con le forbici e poi attaccarla con lo scotch accanto a quella degli altri cinque. Ma, nel quadro complessivo, vanno messi anche loro.

 

Ad esempio, nei prossimi mesi, Pedro Sánchez, capo del governo e dei socialisti del Psoe, deve decidere se vuole continuare a essere soltanto un leader disposto a tutto pur di ottenere (o mantenere) il comando sul breve periodo o se invece vuole provare a costruire un modello di socialismo democratico di più largo respiro per la Spagna (e per l’Europa?) dell’era postpandemica. 
Pablo Iglesias, leader del movimento di sinistra radicale Podemos, deve decidere se vuole rifluire nella simulazione di un grottesco eurochávismo o se invece vuole consolidare la sua carica di vicepremier con posture più istituzionali, indispensabili per accedere ai tavoli in cui si prendono davvero le decisioni.

 

Pablo Casado, leader del Partito popolare (Pp), deve decidere se vuole giocarsi fino in fondo la carta dell’antipopulismo di centrodestra o se invece vuole tornare a flirtare con il trucismo iberico di Vox.

 

Santiago Abascal, leader della ultraderecha di Vox, deve decidere se continuare con il “tanto peggio tanto meglio” per garantirsi ancora per un po’ il pieno di voti tra i volubili contrarians di destra o se invece vuole trasformarsi, anche in un’ottica governativa, in un compagno di strada, presentabile del Pp.

 

Inés Arrimadas, leader del partito centrista Ciudadanos, deve decidere se vuole seguire le orme del suo predecessore Albert Rivera, che è stato per anni il fidanzato politico di tutta la Spagna ma che poi non ha trovato nessuno che fosse disposto a sposarselo, o se invece vuole finalmente provare a conquistare una qualche rilevanza concreta per sé e per il suo partito.

 

Da parte loro, invece, Oriol Junqueras (leader incarcerato di Esquerra republicana de Catalunya) e Carles Puigdemont (leader fuggiasco di Junts per Catalunya), che sono uniti nell’indipendentismo e divisi su quasi tutto il resto, disputano la loro partita giocando entrambi da remoto. E tutti e due sfruttano la politica nazionale (e si fanno sfruttare dalla politica nazionale) con lo stesso obiettivo: accumulare punti rispetto all’“avversario interno” in vista delle elezioni catalane di febbraio. E continueranno a farlo, senza prendersi neanche un giorno di pausa.

 

L’assicurazione sulla vita 

Il governo di Sánchez, che, tutto a un tratto, sembra destinato alla longevità, era nato però fragilissimo. Infatti, in occasione del suo insediamento, nel gennaio scorso, il governo Psoe-Podemos, che è il primo esecutivo di coalizione della storia della Spagna postfranchista, era stato varato con solo due voti di scarto grazie a una “maggioranza Frankenstein” (copyright del compianto leader socialista Alfredo Pérez Rubalcaba), ottenuta con un combinato disposto di “sì” e di astensioni. Votarono “sì” i socialisti, Podemos, il Partito nazionalista basco, il Blocco nazionalista galiziano, Nueva Canarias, Compromís (movimento della sinistra valenciana), Más país (partito nato da una scissione di Podemos) e l’unico deputato eletto dalla lista ¡Teruel existe!, solitario alfiere della “Spagna vuota”. Si astennero invece gli indipendentisti catalani di Esquerra republicana de Catalunya (il partito di Junqueras) gli indipendentisti baschi radicali di Bildu.

 

Quest’autunno, a circa un anno dalla sua nascita e in occasione del voto sulla sua prima legge Finanziaria della legislatura, il governo Sánchez rischiava dunque, e di grosso, di non “tenere”. E invece, la scorsa settimana, la Finanziaria è passata al Congresso con un margine molto più ampio rispetto al voto di investitura, grazie al “sì” esplicito di Esquerra republicana e di Bildu, ottenuto con un accordo tessuto da Iglesias e contestatissimo dalle opposizioni, che hanno parlato di un ignobile cedimento di Sánchez davanti ai “golpisti catalani” e al partito che fu il braccio politico dei terroristi baschi dell’Eta.

 
 
Insomma, per la destra e per molti commentatori (anche vicini al Psoe), il premier si è rivelato il solito burattino vanitoso: si è fatto prendere in ostaggio da Pablo Iglesias e ha venduto l’anima del socialismo al sanguinario demonio basco e al disgregatore diavolo catalano. Per altri, invece, Sánchez si è mostrato come un timoniere spregiudicato, che ha sfruttato l’aiuto di due bande di bucanieri e che ora può veleggiare sicuro fin quasi alla fine della legislatura, dopo aver issato sul pennone del suo vascello lo stendardo dei poteri che se non sono assoluti sono però quasi inalienabili. E oltretutto d’ora in poi, in caso di ammutinamento, Sánchez potrà buttare fuori bordo il suo secondo Iglesias, senza pregiudicare la rotta della sua nave. E in effetti, benché al governo serva anche il consenso del Senato che, entro fine anno, dovrà ratificare il voto del Congresso (ma non si attende alcuna possibile sorpresa in quel passaggio), il premier si è probabilmente garantito almeno qualche anno di sopravvivenza alla Moncloa.
A Madrid, la sedia di un premier è comunque sempre molto salda, perché i meccanismi della politica spagnola non prevedono che un voto di sfiducia possa far cadere il governo. L’unica manovra contemplata è la “sfiducia costruttiva” e cioè la formazione in Parlamento di una maggioranza che sia alternativa a quella vigente e che sia disposta ad appoggiare un candidato comune come nuovo premier. In altre parole, a Madrid, per disarcionare il capo di un governo non basta dimostrare che il premier in carica non è più sostenuto dalla maggioranza dei deputati, ma bisogna trovare una maggioranza di parlamentari che sostenga un altro candidato. Proprio in questo modo, nel 2018 (e cioè nell’unico caso della storia democratica spagnola in cui una moción de censura ha avuto successo), lo stesso Sánchez sostituì, con una capriola eseguita in poche ore, il popolare Mariano Rajoy alla guida del paese. Ma oggi una maggioranza alternativa in funzione anti Sánchez è davvero impensabile.

 

Proprio per questo, la preoccupazione principale del premier socialista non è mai stata l’ipotesi di una mozione di sfiducia ai suoi danni, ma la tenuta del suo governo sulla Finanziaria. Ora che anche questo rischio è stato scongiurato, il percorso è tutto in discesa, visto che, secondo la prassi spagnola, anche qualora nei prossimi anni il governo non dovesse riuscire ad approvare ulteriori leggi di bilancio, potrebbe comunque tirare avanti avanti per lungo tempo (praticamente fino a fine legislatura) anche in minoranza, a colpi di esercizi provvisori. E già successo varie volte. 

 

Pedro 

Pedro Sánchez, quando è diventato il leader del Psoe nel 2014, sembrava soltanto un seducente cartonato acchiappavoti. E invece si è rivelato un combattente. Da candidato premier, ha perso le elezioni nel 2015 e nel 2016 (entrambe le volte contro Mariano Rajoy). Sempre nel 2016 si è dimesso dalla guida del partito perché in disaccordo con la scelta dei suoi di offrire un appoggio esterno ai popolari. Ha quindi percorso tutta la Spagna con la sua Peugeot per ricostruire la sua leadership. Nel 2017 è tornato a capo del partito, nel 2018 ha capitanato un’acrobatica applicazione della sfiducia costruttiva ed è diventato premier. Nel 2019 ha vinto le elezioni e ha formato un nuovo governo. Guapo, combattivo e, alla fine, anche vincente. Ma chi è Pedro Sánchez? Qual è la sua idea di socialismo, qual è la sua idea di Spagna? Comanda lui o comanda Iglesias? E saprà domare gli indipendentisti quando torneranno aggressivi o finirà sbranato? Finora Sánchez lo si è visto soltanto nei conteggi febbrili delle maggioranze Frankenstein o nei retroscena che raccontano i suoi scontri con alcuni “baroni regionali” del Psoe o con i socialisti old school come Felipe González. Ora che ha il potere e anche un margine comodo per amministrarlo – e che, come tutti i suoi colleghi europei, ha anche in arrivo una montagna di soldi da Bruxelles, nonché (si spera) un vaccino – Sánchez non avrà più alibi. E dovrà governare. 

 

Pablo /1

Pablo Iglesias ha ancora la coda di cavallo e anche l’atteggiamento da antisistema. Ma, dalla fondazione di Podemos (2014) a oggi, molte cose sono cambiate. Il movimento con dirigenza assembleare è diventato di fatto un partito con un leader: lui, Pablo. Il modello “bolívariano” ha perso, ehm…, diciamo così, un tantino del suo potere seduttivo. Intanto i media hanno crocifisso Iglesias per la sua villetta pagata circa 600 mila euro (in spagnolo si dice “chalet”, che è più gustoso perché fa subito Sankt Moritz, anche se qui stiamo parlando di una cittadina residenziale alle porte di Madrid). Il consenso elettorale per Podemos e per i suoi franchising politici locali ha subìto un graduale calo, ma l’ex indignado in chief è diventato vicepremier. Da ultimo, l’Iglesias di governo si è dato molto da fare. E’ rumorosamente intervenuto in ogni dossier. Ha tessuto, a favore di telecamera, l’accordo con gli indipendentisti sulla Finanziaria, approfittandone per tornare ad auspicare con leggerezza la fine del modello costituzionale uscito dalla transizione democratica. Ha perfino twittato (giustamente, ma senza nessun senso del tempismo) sull’indipendenza per il Sahara occidentale, proprio mentre il governo di cui è vicepremier stava negoziando con il Marocco sul contenimento delle ondate migratorie. Sánchez è sembrato per settimane al traino del suo vice. Si è trattato di un’astuzia del premier per attirare consensi imprevedibili in Parlamento e girare l’angolo della Finanziaria? O è una sua debolezza strutturale? Ora che potrebbe persino provare una navigazione in solitaria, Sánchez (che ancora nel 2019 diceva: “Non dormirei di notte all’idea di avere dei ministri di Podemos nel governo”) dovrebbe mettere freno all’urgenza espressiva di Iglesias, ricordandogli chi è il capo e minacciando di rimandarlo a concionare nei collettivi universitari. Prima che si consolidi troppo la caricatura di un Sánchez al guinzaglio del suo vice. 

 

Pablo /2

Quando, a 37 anni, Pablo Casado ha assunto la guida del partito, i popolari  speravano che potesse rallentare la senescenza della loro base elettorale, recuperando un po’ di voti giovani e urbani che erano scivolati verso Ciudadanos. Casado, pur non essendo un hardliner, sembrava anche in grado di riportare un po’ di aznarismo al Pp e cioè di iniettare un po’ di conservatorismo senza complessi nella moderazione lasciata in eredità da Rajoy. Beh, alla destra del Pp è invece comparso Vox, un micropartito che in realtà esisteva già, ma di cui nessuno s’era mai accorto. Paese che vai, sovranisti che trovi: alla fine ha funzionato anche la versione spagnola della ricetta (polemiche a tutto andare, riferimenti appositamente spericolati al franchismo, nazionalismo esasperato, pose da corrida, maschilismo esibito e parole grosse sull’immigrazione). Così, a partire dal 2019, Vox ha iniziato a conquistare un sacco di voti. Il Pp ha pagato pegno. Prima ha cercato di minimizzare l’ascesa di un partito che cercava di pescare consensi in un punto dello spettro elettorale dove i popolari non avevano mai avuto concorrenza. Poi lo ha inseguito. Alla fine, Vox ha fornito i voti determinanti perché i popolari potessero governare alcune amministrazioni locali importanti, come la Regione di Madrid o l’Andalusia. Inoltre, Pp, Vox e Ciudadanos hanno stipulato una sorta di alleanza (perdente) in occasione delle elezioni politiche.
Ma poi, nello scorso ottobre, il leader di Vox, Santiago Abascal, per ottenere un po’ di visibilità e per mettere all’angolo il Pp mostrandone l’irresolutezza, ha deciso di guidare come candidato premier alternativo una mozione di sfiducia contro Sánchez, destinata a sicuro insuccesso. Per qualche giorno, per paura di sembrare troppo fiacco nel criticare il governo, Casado ha accarezzato il suicidio politico, e cioè l’ipotesi di astenersi sulla mozione di Abascal. Poi, pare consigliato da Aznar, ha votato “no”. E, soprattutto, ha accompagnato la sua dichiarazione di voto con un discorso in cui ha rivendicato con parole orgogliosissime l’identità del Pp come grande partito di governo, ha attaccato con vera ferocia le posizioni oltranziste di Vox e ha persino corretto le boutade di Abascal – se il leader di Vox aveva definito il governo di Sánchez come “il peggiore degli ultimi ottant’anni”, Casado ha detto “semmai degli ultimi quaranta”, escludendo quindi perlomeno il regime franchista dal novero dei governi migliori di quello attuale. Ora: senza un asse con Vox, il Pp rischia di faticare molto in tutte le prossime tornate elettorali. Ma se Casado saprà aspettare il rifluire della vague sovranista e saprà costruire una convincente piattaforma di destra antipopulista, potrebbe riuscire a riconsegnare Vox all’irrilevanza.

 

Santiago

Santiago Abascal ha portato Vox dove nessuno avrebbe immaginato: ha ottenuto decine di seggi e il corteggiamento da parte del Pp e di Ciudadanos. Ma la sua pessima performance durante la mozione di sfiducia, che avrebbe dovuto essere il suo picco di popolarità, ha lasciato una cicatrice sul machismo abascaliano. L’agenda sovranista di Vox è ancora capace di raccogliere tanti voti, ma Abascal, che è stato fatto a pezzi, a freddo, da un imprevedibile Casado deve rimediare perché intorno alla sua figura non aleggi un’aura da loser.

 

Inés

Quando Inés Arrimadas & los Ciudadanos, e cioè le eterne promesse della politica spagnola, riusciranno a fare una mossa, anche casuale, che li renda davvero rilevanti in una qualsiasi (anche piccola o piccolissima) vicenda della politica spagnola ce lo faranno senz’altro sapere. 

 

Oriol e Carles

Oriol Junqueras e Carles Puigdemont, abili come sempre, giocano la loro parallela partita barcellonese anche a Madrid (uno ha appoggiato la Finanziaria, l’altro no). Poi, fra un paio di mesi, ci saranno le elezioni in Catalogna, un appuntamento che renderà di fatto del tutto impossibile quella quiete nazionale di cui abbiamo parlato fin qui. Perché lì si misureranno i rapporti di Sánchez e Iglesias con le due scuole indipendentiste (è ad esempio possibile pensare a un accordo tra Junqueras, Sánchez e Iglesias per un’alleanza di governo di sinistra in Catalogna che tagli fuori Puigdemont?). E lì ci sarà una concorrenza spietata (con ripercussioni nazionali) tra il Pp, Ciudadanos e Vox per la conquista dei non molti seggi a cui l’“unionismo” di destra o di centro può aspirare in Catalogna. E lì Junqueras e Puigdemont faranno di tutto per far comparire crepe in tutti gli altri partiti. Perché, una volta di più, come da molti anni a questa parte, proprio la Catalogna, in cui moltissimi vorrebbero la secessione da Madrid, è il vero, paradossale ombelico della politica spagnola.  

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