Spalti semi vuoti durante l'ultimo comizio di Trump a Tulsa, in Oklahoma (foto LaPresse)

La contropropaganda dei conservatori repubblicani che odiano Trump

Luciana Grosso

A suon di slogan del tipo “AmericaOrTrump”, il Lincoln Project veicola dei video che criticano il presidente 

Chi di social ferisce, di social perisce. Forse. Sì, perché il bello (che poi è anche il brutto) di internet e del gigantesco mondo dei social è che è fatto di persone. E nel mondo dei like e dei cuoricini, come nel mondo vero, si incontrano mascalzoni, maramaldi e bugiardi così come brave persone, gente che ci è simpatica e compagni di strada. Quello che c'è fuori, nel mondo, per strada, c'è paro paro (solo un po' più volgare e noioso) anche sui social. 

 

 

Negli ultimi giorni -  complici i ragazzini dispettosi e un po’ cazzari di TikTok - abbiamo imparato che non sta scritto da nessuna parte che il mondo dei social sia la prateria personale dei trumpiani, dei bufalari e dei troll che parlano russo ma scrivono inglese. E che quelle stesse armi che sparano click invece che proiettili possono essere usate in modo uguale e contrario a quanto successo nel 2016 (che poi, a sua volta, era uguale e contrario a quanto successo nel 2008 con Obama, pioniere della politica su Facebook e tutt’ora il politico più seguito al mondo con 200 milioni tra amici e follower). Gli stessi social che hanno costituito la forza invisibile della propaganda della destra populista degli ultimi (grossomodo) dieci anni possono esserne, si spera, anche l’antidoto.

 

Lo hanno dimostrato i ragazzini di TikTok, capaci non di sabotare il comizio di Tulsa (che si è sabotato da solo) ma di raccontare uno zeitgeist: il comizio di Tulsa non è stato un buco nell'acqua per effetto del flame su TikTok, al contrario il flame su TikTok è stato un successo perché il comizio di Trump era già, prima ancora di succedere, un flop fuori dal tempo e dalle cose.  Che la partita sui social non sia chiusa, poi, sta provando a dimostrarlo anche Joe Biden, politico che più novecentesco non si può e che però, negli ultimi due mesi, a causa del Covid ha imparato a spostare online tutta la sua comunicazione, con un successo su cui nessuno avrebbe scommesso fino a qualche tempo fa.

  

Lo sta dimostrando anche il Lincoln Project (LP), il gruppo di conservatori repubblicani che, per “puro patriottismo”, si rifiuta di votare Donald Trump e anzi lo attacca – come e più di Joe Biden – a suon di slogan del tipo “AmericaOrTrump”. Gran parte dei contenuti di LP (efficacissimi peraltro) passano per YouTube social di ragazzini e di grandissimo impatto, non foss’altro perché i filmati funzionano di più della parola scritta. 

 

Tra i video più efficaci pubblicati da LP ce n’è uno di poche ore fa, successivo e conseguente al mezzo comizio di Tulsa (1,2 milioni di visualizzazioni in due giorni).

 

 

Un altro, sempre successivo a Tulsa, ha fatto strame (giustamente) dell’idea di Trump di fare meno tamponi per avere meno positivi (oh, yeah).

  

 

Un altro ancora mette in fila le occasioni in cui Trump si è dimostrato incapace e debole nei confronti della Cina, con cui ha ingaggiato una guerra di commerci e diplomazia di alterne fortune.

 

 

Infine, un altro video, parecchio impietoso, mette a confronto Donald Trump con altri leader del passato: gente come Martin Luther King, per dire.

  

 

Difficile dire, a questo punto, se questa opera di contropropaganda servirà a qualcosa o a qualcuno il prossimo novembre: l’equazione tra like e voti non è mai stata automatica e, per fortuna, esiste ancora differenza tra elezioni e televoto. Ma il segnale c’è. E, forse, in fondo, potrebbe avere ragione il Mark Zuckerberg delle origini, quando era solo un ragazzo smanettone e diceva che il suo The Facebook era solo un contenitore vuoto e neutrale, dove la gente metteva quello che voleva. Uno specchio, in pratica. Il problema è, al solito, quello che ci si mette davanti, allo specchio.