Il Lincoln Memorial a Washington D.C. (foto LaPresse)

The Lincoln Project

Luciana Grosso

Un gruppo di repubblicani anti Trump fa una campagna micidiale che riesce a innervosire il presidente

Milano. “Siamo repubblicani. E vogliamo che il presidente Trump perda le elezioni”. Comincia così, chiaro e preciso, il manifesto del Lincoln Project, il gruppo di repubblicani intenzionato a ostacolare, in ogni modo possibile, la rielezione di Donald Trump. “Siamo conservatori – è il senso del gruppo #nevertrump – ma (anzi proprio per questo) ci opponiamo con ogni forza a Trump”.

 

Del Lincoln Project fanno parte alcuni nomi di primo piano del Partito pre-2016 , come l’avvocato George T. Conway III (ex avvocato della superteste del Sexgate Paula Jones e tuttora marito di Kellyanne Conway) o Stuart Stevens, ex capo della campagna di Mitt Romney. Altri nomi di grosso calibro (come Joe Scarborough, conduttore del rotocalco “Morning Joe” ed ex deputato repubblicano) non hanno ancora esplicitamente aderito al gruppo ma diciamo che vi si collocano vicino. 

 

 

Il Lincoln Project, in buona sostanza, accusa (a buon titolo, ci sentiamo di aggiungere) il presidente in carica di aver fatto strame della tradizione di rigore morale e di responsabilità che era la cifra dei presidenti repubblicani: gente come Abraham Lincoln (appunto), Dwight Eisenhower, Ronald Reagan. E persino il più discusso di tutti, quel Richard Nixon che, alla fine, ebbe l’inaudito coraggio di dimettersi.

 

Tutti questi presidenti, dicono dal Lincoln Project, possono essere stati più o meno efficaci, ma si sono assunti le loro responsabilità davanti al paese. Trump, invece no. Dunque è per puro patriottismo che i repubblicani che si dicono tali dovrebbero opporsi a Trump, un presidente eletto in nome e per conto del Partito repubblicano ma che con il Partito repubblicano, dicono, non c’entra niente. “Chiediamo a tutti gli americani di ogni luogo, credo e stile di vita – recita il manifesto – di unirsi al compito fondamentale della nostra generazione: restituire a questa nazione una leadership e una governance che rispettino lo stato di diritto, riconoscano la dignità di tutte le persone e difendano la Costituzione e i valori americani”.

 

Difficile dire, a cinque mesi dalle elezioni, quanto e come il lavoro alacre del Lincoln Project nuocerà a Donald Trump in termini di voti, ma qualcosa si muove. Il presidente in carica, va detto, ha tanti difetti e ha fatto tanti errori, ma ha anche alcune virtù elettorali importanti, come quella di polarizzare moltissimo il dibattito e di mobilitare in modo formidabile la sua base (il suo tasso di approvazione complessivo è tra i più bassi di sempre, 41 per cento, ma quello all’interno dei suoi elettori è stellare: 85 per cento). Eppure – dicono i ben informati – il Lincoln Project rende Trump nervoso. Così come lo rendono nervoso quelli che, nei suoi tweet sprezzanti, chiama Rino (Republicans In Name Only), cioè gente come George W. Bush, Colin Powell, Mitt Romney (o il compianto John McCain) rei di non averlo mai appoggiato.

 

Il problema è che Trump sa (più di Hillary Clinton) che la base va bene, ma da sola non basta. Trump sa (più di Hillary Clinton) che le elezioni non si vincono su base nazionale, ma statale; Trump sa (questo meno bene di Hillary Clinton che, invece, lo sa più di tutti al mondo) che una manciata di voti ben distribuiti negli stati in bilico può fare una differenza enorme. E Trump sa che il suo avversario Joe Biden è assai più potabile di lui agli elettori repubblicani moderati.

 

Per questo – dicono i sussurri dei corridoi di Washington – il presidente sta sferzando lo staff della sua campagna perché faccia di più e meglio. Perché vada a pescare i voti dei repubblicani che potrebbero tradirlo e degli anziani che potrebbero stare a casa. E dove lo trovi oggi, in un colpo solo, l’elettorato anziano e quello repubblicano? Al solito posto: davanti alla televisione. Per questo, nelle ultime settimane, le trasmissioni di Fox News (e persino, anche se in misura minore) di Cnn e Cnbc sono state imbottite di spot della campagna di Trump. Per questo, oggi, nei suoi spot Trump attacca genericamente “gli altri” (ossia tutti quelli che non sono lui) e non solo i democratici. E anche per questo, gli spazi pubblicitari sono stati comprati, più che altrove, su Washington D.C., un posto dove Trump non ha nessuna possibilità di vincere (qui Hillary Clinton prese il 90 per cento dei voti): perché Washington D.C. è il posto da cui Trump guarda la televisione. E se è contento lui, lo sono anche gli strateghi della sua campagna.

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