la biografia
Nella mente di Henry Kissinger
Come si è formato, chi lo ha influenzato, come prendeva le decisioni. Una nuova biografia intellettuale e filosofica
Nella libreria presidenziale di George W. Bush a Dallas c’è una sezione dedicata all’inizio della guerra in Iraq nel 2003. Non è innanzitutto concepita per offrire un racconto cronologico degli eventi, quanto per riproporre, passo dopo passo, tutte le decisioni che il presidente si è trovato a dover prendere fino all’invasione, sotto la guida delle informazioni disponibili in quel momento, che erano parziali, incerte, talvolta completamente false. I visitatori vengono messi di fronte ai briefing dell’intelligence, alle opinioni del Pentagono, alle valutazioni delle organizzazioni internazionali, alle richieste dell’opinione pubblica e devono prendere decisioni sul da farsi. E’ un percorso di immedesimazione nei dilemmi presidenziali il cui scopo non è difficile da afferrare: fare capire al pubblico che molti, anche critici feroci dell’operato di Bush in quella circostanza, avrebbero preso decisioni simili, o almeno ne avrebbero compreso la logica drammatica, una volta strappati dal senno di poi e riposti di fronte alle conoscenze, alle condizioni e alle necessità di allora. Anche il visitatore scettico esce dalla lacerante sequenza di opzioni dicendo “certo, in effetti”.
Ci si sente spesso così leggendo il libro The Inevitability of Tragedy: Henry Kissinger and His World, scritto dal giornalista Barry Gewen, veterano della Book Review del New York Times. Per quanto sia sostenuto da un imponente e minuzioso lavoro sulle fonti, il libro che Gewen ha voluto scrivere non è la biografia definitiva di Kissinger, opera che è già stata scritta anni fa, con il provocatorio titolo The Idealist, da Niall Ferguson, immancabilmente accusato di parteggiare per il soggetto dell’opera; è piuttosto un volume a metà fra uno studio della personalità, una biografia intellettuale e un’esegesi della filosofia implicita del personaggio che ha dominato – e che tuttora incombe – la politica estera americana e il suo immaginario per una parte non trascurabile di un secolo non trascurabile, per quanto breve. Nel prologo scritto in prima persona, Gewen riferisce di una serie di dialoghi a tema geopolitico con un amico. Si parla di relazioni internazionali, di bilanciamento dei poteri, di interessi contrastanti e accordi per garantire gli equilibri. Come in un trattato seicentesco, gli interlocutori rappresentano posizioni stilizzate. L’amico è l’idealista preoccupato dalla moralità delle azioni sullo scenario internazionale; Gewen è il realista disincantato che di fronte a una decisione infausta soppesa le alternative, spesso concludendo che erano impraticabili o non più desiderabili della via poi intrapresa. Su diversi scenari e decisioni concrete, necessariamente imperfette, l’idealista è disposto a concedere all’interlocutore che il compromesso alle volte è necessario e prudente; il realista è pronto ad affermare che la responsabilità degli equilibri globali va misurata anche in base alla dimensione morale delle scelte, e alle loro conseguenze. I due trovano ampie aree di intersezione sulle amare necessità imposte dai rapporti commerciali fra gli Stati Uniti e la Cina, sui rapporti di Washington con il regime di Teheran, sulle complicazioni che derivano dalla irrinunciabile relazione speciale con Israele, ma non su Kissinger. Sulla figura dell’ex segretario di stato la distanza fra i due si fa incolmabile, le differenze inconciliabili, perché, come dice l’amico in un sussurro, “Kissinger è il male”. La succinta massima è entrata nella coscienza collettiva americana, e il libro di Gewen può essere letto, in un certo senso, come il tentativo di rispondere alla domanda: “Kissinger è davvero il male?”.
Quello che ne esce non è un lavoro apologetico, ma di immedesimazione e relativizzazione, dove le circostanze fondanti della personalità kissingeriana forniscono elementi di riflessione che, nel corso del racconto, si consolidano in un apparato di circostanze attenuanti che conducono il lettore a conoscere Kissinger non attraverso un’operazione di distacco critico ma di avvicinamento e progressivo coinvolgimento. Un avvocato assennato baserebbe su questo libro una solida linea di difesa dall’impianto accusatorio elaborato da Christopher Hitchens nel suo The Trial of Henry Kissinger.
Nella ricostruzione del personaggio, Gewen non procede in ordine cronologico, ma per temi e, per dir così, per sfere di influenza concettuali. La storicizzazione tuttavia è decisiva. Ad esempio, nel primo capitolo, ambientato in Cile, lo sfondo del “peccato originale” kissingeriano, il lettore è condotto nel dettaglio della politica interna cilena, nelle complicazioni dialettiche fra i comunisti e i socialisti di Salvador Allende, nei rapporti con Fidel Castro, nell’influenza di Mosca, il tutto sullo sfondo delle precedenti iniziative di Kennedy, un affresco storico complicatissimo eppure necessario per comprendere le circostanze concrete in cui Kissinger si trova ad operare. Lo stesso vale per l’epopea tragica del Vietnam, con tutte le sue ramificazioni nel quadrante del sudest asiatico. Ma il cuore, il senso più profondo del testo, è la ricostruzione del non detto, il disseppellimento degli elementi psicologici, biografici, delle letture, delle influenze nascoste che hanno contribuito alla formazione della personalità di Kissinger. E’ magistrale, per capacità di scavo psicologico, la sezione dedicata alla descrizione del Kissinger rifugiato, assieme alla famiglia, a Washington Heights, quartiere della parte settentrionale di Manhattan, e di come la progressiva conoscenza della sensibilità dell’America di mezzo, lontana dalle élite costiere, sia l’elemento che instilla in lui la passione per il suo paese adottivo. “Da nessuna parte come nella small-town America si trova la stessa generosità di spirito e assenza di malizia”, ha scritto Kissinger nelle sue memorie, impiegando un’espressione che richiama la malice toward none di cui Abraham Lincoln parla nel suo memorabile secondo discorso inaugurale. Il processo di innamoramento di Kissinger per l’America popolare, per la generosità dell’animo del Midwest, avviene, dettaglio non secondario, durante il servizio militare, esperienza che lo trasformerà da “rifugiato” a “immigrato”, una condizione che sarà sempre accompagnata da un che di ambiguo e irrisolto: “Da un ebreo tedesco costretto all’esilio dai nazisti non ci si poteva attendere un’accettazione entusiasta, ottimista della terra adottiva, ma soltanto ambivalenza: gratitudine, anche ammirazione, perché era stata un porto che gli aveva salvato la vita, ma anche alienazione, perfino resistenza, perché andare in America non era stata una scelta”, scrive Gewen.
Dentro i sentimenti ambivalenti dell’immigrato ebreo e tedesco che non ha mai perso l’accento matura la sfiducia verso la democrazia liberale come fine ultimo verso cui la storia è orientata: “La democrazia era ammirevole”, scrive Gewen, “quando c’erano le condizioni per realizzarla, ma non era un’uscita di sicurezza, una panacea per tutti i mali. Anche quando lavorava al Council on Foreign Relations negli anni Cinquanta e Sessanta, ed era a contatto con alcune delle menti più brillanti dell’establishment della politica estera, Kissinger sentiva una certa superiorità ‘europea’ rispetto agli ottimisti americani, che tendevano a credere che la pace fosse lo stato normale delle cose nel mondo, che gli Stati Uniti rappresentassero un prototipo universale, che ogni problema avesse una soluzione, e che la soluzione fosse sempre la stessa: democrazia, e poi ancora democrazia. Kissinger era il pessimista, aveva il temperamento dell’outsider, era incline al sospetto e alla paranoia”.
La missione più ambiziosa del libro è rintracciare le radici filosofiche nascoste di questo atteggiamento. Kissinger ha sempre avuto la stoffa dello storico e i talenti dello statista, ma “come filosofo politico è appena nella media”, ha detto uno dei suoi professori ad Harvard. Gewen fa un lavoro concettuale, e non soltanto storico, enorme per fare emergere le fonti di questo pensiero. Il riferimento esplicito di Kissinger è sempre stato il politologo Hans Morgenthau, padre del realismo contemporaneo, al quale Gewen dedica un lungo capitolo, ma per afferrare la parte più profonda dell’anima dello statista occorre andare a Leo Strauss e Hannah Arendt, entrambi ebrei e tedeschi come lui, anche se appartenenti a una generazione precedente. “I tre sono uniti dai generali punti in comune basati sulle somiglianze del loro retroterra, delle loro storie di vita e delle situazioni esistenziali in relazione al mondo in cui sono stati gettati senza volerlo”. Gli storici delle idee parlano di “somiglianze di famiglia” fra i pensatori: “Strauss e Arendt sono cugini di primo grado di Kissinger”. Tutti e tre “pensavano senza ringhiera” e “nutrivano un profondo sospetto verso la democrazia e i suoi processi maggioritari”, sentimento nato non già nell’incontro con la democrazia americana, ma dalla critica alla Repubblica di Weimar e alla sua licenziosità scambiata per libertà. “La società aperta è destinata ad essere se non immorale, almeno amorale: il terreno dove si incontrano i cercatori di piacere, di guadagno, di potere irresponsabile, di ogni tipo di irresponsabilità e mancanza di serietà”, scrive Strauss. “Queste sono le parole di una persona”, commenta Gewen, “che credeva che la democrazia moderna della Germania di Weimar fosse diventata parte del problema, non parte della soluzione”.
Per Strauss, “la libertà non era un fine in sé, perché nella forma presente è diventata una scusa per una incontrollata licenziosità, separata da ogni concezione di virtù e responsabilità sociale”. Agli occhi di questa “famiglia intellettuale” di ebrei tedeschi, dove Kissinger è il cugino minore, la democrazia aveva già fallito il test del totalitarismo, permettendo l’ascesa di Hitler, e il sentimento di disillusione verso la democrazia e le sue istituzioni non si attenua con l’approdo in America. In un certo senso si acuisce in quel mondo dominato dal pragmatismo e dalle sconfinate ambizioni della scienza: “La scienza non era in grado di offrire valori e criteri su come vivere la propria vita; né potevano farlo i metodi quantitativi dell’empirismo che erano così prevalenti nella società americana”, nota l’autore. George Kateb, politologo di Princeton, ha scritto, riferendosi a Strauss e Arendt: “Chiunque creda nella democrazia moderna deve resistere all’influenza di questi due filosofi tedeschi-americani”. Kissinger non solo non ha resistito alle influenze di due pensatori con i quali non ha avuto praticamente rapporti diretti, ma ha accolto i pilastri esistenziali del loro pensiero, fino a diventare “uno statista esistenzialista il cui rifiuto di impegnarsi in un pensiero fondativo, lo ha portato ad affidarsi a un realismo fatto di bilanciamento dei poteri e a un certo distacco che i critici hanno etichettato come opportunismo o cinismo”. La genealogia intellettuale meticolosamente ricostruita dall’autore mostra i motivi per cui Kissinger ha finito per esprimere, in azione, una concezione “modesta, essenzialmente negativa” della politica, il cui compito “non è di condurre il mondo in un percorso preordinato verso la giustizia universale, ma di mettere un potere contro un altro potere per regolare le aggressioni fra gli esseri umani e tentare, per quel che possiamo, di evitare i disastri”. Una prospettiva, nota l’autore, “modellata dal pessimismo”, ma che non necessariamente fa di Kissinger un attore politico animato da intenzioni malvagie, come voleva l’amico di Gewen.
Il libro si conclude con un epilogo in prima persona che tenta di risolvere, dopo un lungo percorso, il disaccordo nato all’inizio. Scrive l’autore: “L’amico che mi ha detto che Henry Kissinger era malvagio non aveva torto. Tutte le figure che hanno occupato una posizione come la sua possono essere considerate malvagie. Ma valutare la carriera di Kissinger significa che non è sufficiente notare che ha preso delle decisioni sbagliate, ordinando l’uso della violenza, anche verso persone innocenti. La domanda che dobbiamo farci è se queste decisioni siano state più malvagie del necessario, e a questa non si può rispondere appellandosi a ideali astratti o ricorrendo a ovvietà moralistiche. Impone l’immedesimazione nella situazione immediata e l’analisi di ciò che ci si sarebbe potuto attendere dalle possibili alternative. Quali possibilità aveva Washington di fronte alla vittoria elettorale di Salvador Allende? Come potevano uscire gli Stati Uniti dalla palude del Vietnam in modo da danneggiare il meno possibile gli interessi nazionali? Certo, si può benissimo sostenere che Kissinger non ha sempre passato questo test. Ma per citare Morgenthau: ‘L’atto stesso di agire distrugge la nostra integrità morale. Chi intende mantenere la sua innocenza morale deve abbandonare completamente l’azione’”. Il libro si conclude con una frase che, isolata dal contesto, i molti critici di Kissinger potranno trovare assolutoria; posta invece alla fine di un percorso tanto tortuoso, e a tratti perfino oscuro, mette il personaggio all’interno di una rappresentazione tragica, che poi è il registro della condizione umana: “Chi vuole agire deve accettare l’imperfezione dell’uomo, l’imprevedibilità delle conseguenze, la prospettiva di non arrivare a nessuna soluzione permanente, l’inevitabilità della tragedia”.
Isteria migratoria