Un bilaterale tra Vladimir Putin e Donald Trump durante il g20 di Osaka, nel giugno 2019 (foto LaPresse)

Il fronte anticinese di Trump e la ricerca europea di un nuovo multilateralismo

Giulia Pompili

Il presidente americano vuole aprire il G7 alla Russia. Londra e Berlino contrari (e la Cina trolla)

Roma. L’ultima mossa dell’Amministrazione Trump per contrastare l’influenza cinese è mettere insieme tutti i paesi che hanno avuto problemi con Pechino negli ultimi anni. Ma l’ipotesi lanciata l’altro ieri dal presidente americano Donald Trump – il G7 è “un’istituzione obsoleta”, e quindi va riformata facendola diventare un G11 – a distanza di ventiquattr’ore ha già ricevuto parecchie critiche, e risulta una strada difficilmente praticabile. Quest’anno la presidenza della riunione delle sette grandi economie del mondo tocca all’America, e il presidente, in un primo momento, aveva insistito sulla necessità di tenere il vertice come di consueto a giugno, nonostante la pandemia. Dopo diverse defezioni (prima fra tutte quella della Germania di Angela Merkel), l’Amministrazione ha accettato di rimandare a settembre il summit, ma ha proposto di aprirlo anche “a Russia, India, Australia e Corea del sud”. Non è così facile.

 

L’India di Narendra Modi sta vivendo un periodo pericolosissimo con la Cina: sia Delhi sia Pechino nelle ultime settimane hanno aumentato le truppe al confine nella regione del Ladakh: la tensione nell’area himalayana è sempre più alta e un incidente, fomentato dalla retorica nazionalista di entrambi i paesi, rischia realisticamente di sfociare in un conflitto militare. L’Australia, tradizionalmente molto legata alla Cina per ragioni geografiche ed economiche, ospita la comunità cinese più grande del mondo. Il primo ministro di Canberra Scott Morrison è stato uno dei primi a chiedere un’indagine internazionale sulle responsabilità della Cina nella pandemia, e ora si ritrova nel mezzo di una guerra commerciale con Pechino.

 

La Corea del sud nel 2017 ha subìto il durissimo boicottaggio cinese per via dell’istallazione dello scudo antimissile americano Thaad sul suo territorio. Solo recentemente la presidenza di Moon Jae-in è riuscita a ricucire i rapporti con Pechino (e anche per questo la Corea del sud è uno dei pochi paesi democratici asiatici a non aver preso una posizione sulla questione Hong Kong). Ma il problema più importante è quello di far tornare la Russia al tavolo dei potenti: Mosca fu esclusa dal vertice annuale del G8 nel 2014, dopo l’annessione della Crimea. Non solo la sua presenza nel ruolo di nemico-amico di Pechino potrebbe essere tutt’altro che utile all’obiettivo di Trump – quello di trasformare il summit in una fronte anticinese – ma sarebbe anche piuttosto controversa. Ieri il portavoce del primo ministro britannico Boris Johnson ha detto che “il Regno Unito si opporrà” al ritorno della Russia nel G7 “finché il paese non cesserà tutte le attività aggressive e destabilizzanti che minacciano la sicurezza dei nostri cittadini”. Anche il Giappone, che fa parte del G7 e sin dalla Seconda guerra mondiale ha un rapporto molto complicato sia con la Russia (per questioni territoriali non hanno mai firmato un trattato di pace) sia con la Cina, ha fatto sapere ieri, tramite il capo di gabinetto del governo di Shinzo Abe, Yoshihide Suga, che “non vi è alcun cambiamento nella nostra posizione: non riconosciamo l’annessione della Crimea da parte della Russia alla luce dell’integrità della sovranità e del territorio dell’Ucraina”.

 

Trump cerca alleati internazionali nella sua crociata anticinese, ma il suo approccio semplicistico alla questione Pechino non convince quasi nessuno. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha detto ieri che “il mondo non deve essere diviso in sfere d’interesse americane o cinesi. Spetta a noi europei lottare per il multilateralismo”. Per Maas ci sono molte questioni urgenti “da discutere con la Cina, ma deve essere chiaro che l’Europa rappresenta determinati valori e princìpi, che guidano anche i nostri colloqui con la Cina”. L’Europa però su questioni cruciali come quella di Hong Kong sembra tutt’altro che unita: anche dopo la riunione dei ministri degli Esteri venerdì scorso eventuali sanzioni contro Pechino sembrano non essere sul tavolo. Solo il governo di Londra sarebbe disposto a garantire la cittadinanza ai fuggitivi della sua ex colonia.

 

Con il caos in America, Pechino si sente ormai legittimata ad andare avanti nella trasformazione di Hong Kong in “un paese, due sistemi di business”. Ieri i giornali cinesi hanno dato molto spazio alle proteste in America, sottolineando quanto fosse ipocrita, da parte della Casa Bianca, occuparsi dei diritti dei manifestanti nell’ex colonia inglese. Hu Xinijn, falco direttore del Global Times, ha scritto su Twitter di essere quasi sicuro che dietro alle proteste in America ci siano i facinorosi di Hong Kong infiltrati. Trollaggio puro.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.