Il palco del dibattito democratico organizzato dalla Cbs (foto LaPresse)

Il solito copione democratico

Luciana Grosso

Dopo il dibattito organizzato dalla Cbs le primarie democratiche sono esattamente dove erano: incastrate tra un vincitore in pectore (Sanders) che non piace al partito, e un partito incapace di trovare un candidato, una linea, una strategia

Mancano tre giorni al voto in South Carolina e meno di una settimana al Super Tuesday, che assegnerà i delegati di 15 stati. Due scadenze vicine e importanti che, in teoria, avrebbero dovuto mettere alle strette i candidati democratici e spingerli a dare il meglio di sé. Invece niente di tutto questo è successo. O meglio, niente di tutto questo si è visto dal palco del dibattito di ieri notte: due ore di confusione e noia, nelle quali, complice anche la pessima organizzazione dei tempi e delle domande da parte di Cbs, i candidati hanno girato a vuoto, arrovellandosi su questioni interessantissime e importanti, ma senza nessuna presa elettorale (roba tipo il destino di Gerusalemme, per dire, o il filibuster, una complessa regola di voto al Senato). Si è parlato, com’era ovvio fosse, di coronavirus, ma la faccenda è stata liquidata abbastanza in fretta, visto che tutti i candidati erano concordi nel dire che Donald Trump non è assolutamente in grado di gestire la crisi.
Per il resto, nessuno è riuscito ad emergere davvero sugli altri, nessuno è riuscito a espandere davvero la sua platea di elettori potenziali.

In buona sostanza ognuno è tornato a casa con quello che aveva, dopo aver replicato la sua parte in commedia. 

 

 

Buttigieg, per dire, “ha fatto Buttigieg”: preparato, efficace, tagliente, è una macchina da slogan (“If you are a leader, first be a servant”) e ha la capacità di infondere calma a chi lo ascolta, come se avesse la situazione sotto controllo. Peccato per lui che i sondaggi non lo premino per niente. Anzi. E difficilmente i suoi attacchi di ieri sera a Bernie Sanders lo porteranno lontano.

 

 

Sanders, invece, forte del suo vantaggio in voti e sondaggi, è carismatico ma riottoso: ha la faccia e il tono di uno pronto a fare a cazzotti a ogni domanda e, benché parli di creare “un grande movimento di persone” attorno alla sua candidatura, sembra non avere nessuna interesse per i moderati cui non piace Donald Trump. Anzi, sembra quasi li provochi, li trolli, intenzionato a piacere loro meno ancora di quanto piaccia l’attuale Presidente. A un certo punto si è pure incartato sulla questione delle dittature che “fanno anche cose buone”: ci sentiamo di consigliargli di lasciar perdere.

 

 

Joe Biden, invece, si è ripreso e per la prima volta ha portato a casa un dibattito nel quale è stato brillante, preciso, simpatico e affilato. Benché continui a spiccare per buona educazione e garbo con gli avversari, ieri ha finalmente sfilato i guantoni e attaccato Bernie Sander frontalmente, colpendolo su uno dei suoi punti più deboli, almeno agli occhi dei dem: la sua ambigua posizione sul controllo delle armi. In particolare Biden ha rinfacciato a Sanders di aver votato, nel 2007, per una legge che esonerava i produttori di armi da ogni responsabilità per le sparatorie. Un voto che Sanders stesso ha definito ‘sbagliato’, ma che Biden ha saputo usare a suo vantaggio.

 

 

 

Anche Elizabeth Warren si è confermata quella di sempre: lucida e preparata, ha (o meglio dire “avrebbe”) un piano per tutto. Se solo riuscisse a diventare presidente, o almeno candidata. I sondaggi però, purtroppo per lei, la inchiodano nelle parti basse della classifica, e la senatrice del Massachusetts sembra destinata a restare niente di più che una suggestiva ipotesi. Per rifarsi ha provato a giocare ancora un po’ al gatto col topo con Bloomberg, ma si è visto che dopo un po’ la faccenda ha detto quello che doveva dire, e allora ha lasciato perdere.

  

 

Stessa aria di rompete le righe anche dalle parti di Amy Klobuchar: combattiva sì, ma sottotono, come una che non ci crede più nemmeno lei. Ma ha messo a segno il colpo più duro ai danni di Bernie Sanders, dicendo che le sue “Sono promesse vuote, buone solo per gli adesivi da mettere sulla macchina”. Ahia.

 

Infine, sul palco, c’erano due miliardari: Tom Steyer e Mike Bloomberg. Di Steyer non c’è molto da dire: benché stia spendendo un mare di soldi (200 milioni dall’inizio della campagna, il doppio secco di quanto speso da Sanders) i suoi risultati sono veramente scarsi. Se gli va bene (ma proprio benissimo) riuscirà ad arrivare terzo in South Carolina. E poco altro. 



 

Quanto a Bloomberg è andato leggermente meglio della scorsa volta (difficile fare peggio), ma si è confermato un oratore molto scarso e soprattutto privo di un programma chiaro che non sia la forza del suo nome e del suo portafoglio. Di lui si ricorderanno una battuta sulla sua statura, un attacco piuttosto scomposto a Bernie Sanders (per il quale ha ventilato in modo vago e passivo-aggressivo un ipotetico sostegno da parte di Vladimir Putin) e un momento surreale e involontariamente comico durante il quale l’ex sindaco ha detto di aver trionfato allo scorso dibattito. 

 

Così, dopo due ore di dibattito, le primarie democratiche sono esattamente dove erano: incastrate tra un vincitore in pectore (Sanders) che non piace al partito, e un partito  incapace di trovare un candidato, una linea, una strategia. Né per battere Sanders, né per battere Trump.