Lo scorso anno Wolfgang Ischinger, presidente della Munich Security Conference, si è presentato con una felpa europeista

La paura del vuoto

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Tutti a Monaco a parlare dell’assenza dell’occidente, di come curarla (in Europa) e di quest’America incerta

Secondo molti europei Bernie Sanders è “un isolazionista di sinistra”, dice all’Atlantic l’ex ambasciatore francese a Washington, quel Gérard Araud che ha scritto un memoir che è una goduria (“Passeport Diplomatique”), e gli europei “sono terrorizzati” dalla prospettiva di una presidenza Sanders. Il senatore del Vermont è una delle non-presenze che si sentono tantissimo alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, l’appuntamento annuale in cui il mondo occidentale si ritrova a dirsi cosa pensa di se stesso. 

 

L’Europa ha imparato a guardare l’America con un occhio meno languido: le dipendenze sono ancora tante, ma la presidenza Trump le ha rese più imbarazzanti e così è iniziato un processo di adattamento fondato sul realismo: quest’America sa dove colpire per fare male, meglio stare sulla difensiva. Gli europei temono tantissimo un secondo mandato di Donald Trump – già il primo è burrascoso – ma la prospettiva Sanders non risulta affatto rassicurante. Alle presidenziali americane di quest’anno voteranno per la prima volta ragazzi nati all’inizio della guerra in Afghanistan, cioè parte di una generazione che ha vissuto soltanto le cosiddette “endless war” degli americani, e che vuole vederle finire. In questo senso, Trump e Sanders si assomigliano: entrambi condividono il fatto che l’America non debba essere il poliziotto del mondo. Sanders è anche convinto che l’egemonia militare americana debba finire perché non garantisce sicurezza e prosperità agli americani, ed è facile immaginare perché gli europei, che dipendono da quell’egemonia anche per la propria sicurezza, sono tanto preoccupati.

 

Alla conferenza di Monaco del prossimo anno, sapremo quale spavento ha avuto il sopravvento, intanto vediamo cosa succede quest’anno.

 

Di cosa si parla alla conferenza di Monaco. Venerdì si apre la Munich Security Conference che come lo scorso anno inizia il giorno di San Valentino, e che come ogni anno è un buon appuntamento per capire a che punto sono amicizie e inimicizie, quanto possiamo sentirci sicuri e magari è il momento per fare qualche proposta. Il tema di quest’anno è la Westlessness e la domanda alla quale gli ospiti tenteranno di rispondere sarà: “Il mondo sta diventando davvero meno occidentale?” A volte ci sembra che anche l’occidente abbia smesso di fare l’occidente e a Monaco verranno messe sul tavolo un po’ di idee per trovare una strategia comune in quest’èra di grandi competizioni internazionali. L’ordine mondiale va rimesso in sesto e chi ha proposte le porti a Monaco. Emmanuel Macron, assente lo scorso anno, è già in prima fila. Nel report che è stato pubblicato ieri e che come al solito è pieno di grafici e sondaggi interessanti – uno molto confortante dice che la reputazione dell’Ue in giro per il mondo non è niente male – si legge che i governi occidentali sembrano non capire più cosa voglia dire far parte dell’occidente. Il primo ad averlo dimenticato è Donald Trump, aggiungiamo noi. Tante delle sfide che hanno a che fare con la sicurezza sembrano ormai legate a quello che gli esperti chiamano: il decadimento del progetto occidentale. Quest’anno a Monaco si parlerà anche di sicurezza nello spazio e poi di clima, perché “per molte persone, il cambiamento climatico è già una minaccia alla propria sicurezza”. Gli attori della conferenza sono i soliti: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia (Putemkin’s State viene chiamata nel report) e poi noi, l’Europa, un’unione che trascorre molto tempo a interrogarsi su come districarsi tra le altre potenze: “Making Europe weltpolitikfähig”, si legge nel report. Dove weltpolitikfähig è una parola tedesca per dire “capace dal nella politica internazionale”.

 

Il palco dell’Europa. E la Germania? Dov’è la Germania? La preoccupazione di molti è che la crisi interna alla Cdu renda la cancelliera Angela Merkel troppo impegnata sul fronte interno. I suoi, i più voraci, come Friedrich Merz, le hanno chiesto di fare in modo che un successore venga scelto in tempi stretti. Un po’ se lo augurano anche gli alleati europei perché, come scriveva ieri il Figaro, quando la Germania starnutisce tutto il continente si becca un raffreddore. Un po’ lo pensano anche a Monaco, dove la cancelliera non ci sarà. L’anno scorso ci era andata assieme a Ursula von der Leyen, che ancora non sapeva che presto si sarebbe trasferita a Bruxelles. Del governo tedesco è atteso l’intervento di Annegret Kramp-Karrenbauer, salirà sul palco con le ossa un po’ rotte per rappresentare una Germania che molti analisti vedono troppo assente e poco decisa. Se la Germania fa un passo di lato, c’è la Francia che prende la scena e infatti tra i più attesi a Monaco c’è proprio Emmanuel Macron, l’intrepido, famelico e ambizioso presidente francese, che aspira al titolo di leader d’Europa. La scorsa settimana Macron ha fatto una proposta che ha scioccato gli europei, sicuramente ha lasciato Josep Borrell senza parole: ha detto che Parigi metterà a disposizione di Bruxelles il suo arsenale nucleare. Secondo il presidente francese l’Ue potrebbe trovarsi nel bel mezzo di una nuova corsa agli armamenti, meglio arrivarci con qualcosa da mettere sul tavolo, non può accontentarsi di fare da spettatrice, “io non lo accetto”. Macron ha chiesto agli europei di mobilitarsi, di avviare un “dialogo strategico” che includa la dissuasione nucleare e una riflessione su una “dimensione autenticamente europea delle forze nucleari francesi”. Ecco Macron che fa un altro sgambetto alla Nato, ha pensato qualcuno a Bruxelles che di fronte all’offerta è rimasta di ghiaccio. Meglio usare prudenza quando si parla di nucleare e di difesa. Josep Borrell ha commentato a denti strettissimi, ha detto al Monde che l’Ue per ora pensa al disarmo, conformemente al Trattato di non proliferazione, che non esiste una posizione comune riguardo al trattato che vieta le armi nucleari. Macron invece crede nel principio di deterrenza e vuole un’Europa che si faccia sentire, un’Ue strategica. Ieri a Parigi in un incontro con la sua maggioranza ha detto che vuole che ecologia e sicurezza siano due pilastri della sua presidenza.

 

A Monaco le istituzioni europee non ci saranno, sarà Macron che parlerà da leader dell’Unione e dal palco di una conferenza per la sicurezza il cui tema principale è l’assenza dell’occidente – c’è anche l’hashtag #Westlessness – il presidente francese, che oltre alla #Westlessness teme ancora di più la #Europelessness, avrà di che sgolarsi.

 

Il cordone sanitario /1. C’è un prima e un dopo Turingia. Il dopo Turingia è servito a capire che i cordoni sanitari sono importanti, servono a mantenere in vita dei valori non negoziabili, quei valori che danno aria alle nostre democrazie. Il partito di Angela Merkel ne ha risentito più di tutti, la delfina della cancelliera Annegret Kramp-Karrenbauer si è dimessa dalla guida del partito e tutte le anime che ribollivano da tempo sono tornate a farsi sentire. Per ora sono quattro, quattro uomini, chi guarda più a destra chi guarda un po’ più al centro, tutti consci del fatto che la Turingia ha posto il partito di fronte a una domanda: quali valori vogliamo rappresentare? Anche in Europa c’è un partito che da quasi un anno è in fermento, ha la sua Turingia personale da domare, che è rappresentata da Viktor Orbán, attorno al quale c’è un cordone sanitario di forze europeiste che si interroga su cosa fare con il partito del premier ungherese, che ha instaurato nel suo paese una democrazia illiberale. Per scoprire perché il Partito popolare europeo è così bloccato di fronte alla possibilità di espellere Orbán e il suo Fidesz, abbiamo chiesto a Mikuláš Dzurinda, ex premier slovacco, esponente del Ppe e presidente del Martens Centre – il think tank ufficiale del partito –, di condurci attraverso le divisioni e le domande esistenziali dei popolari. “Per diversi anni Orbán è stato oggetto di critiche per le sue violazioni ai principi della democrazia liberale. Un simile approccio ha sollevato delle preoccupazioni nel Ppe, ma d’altro canto Fidesz è riuscito a presentarsi come custode dei valori europei e cristiani. Questo è emerso soprattutto quando l’immigrazione è diventata un argomento centrale in Ue. Per questo motivo credo che alcuni membri del Ppe siano riluttanti ad agire in modo deciso contro Fidesz, pensano che le voci che difendono i valori tradizionali potrebbero esserne indebolite”. Orbán ha più volte accusato la famiglia europea di essersi allontanata dai suoi valori cristiani, di essersi spostata sempre più a sinistra per avere più posto nelle istituzioni europee. “Credo che forse sia Fidesz ad avere un problema di valori. La politica del Ppe si basa fortemente sui valori tradizionali della democrazia cristiana europea ma anche sull’umanesimo. Solidarietà, dignità umana, uguaglianza, libertà, responsabilità, ma anche sussidiarietà. Fidesz promette lealtà ai valori cristiani, ma poi ignora la solidarietà quando si tratta di condividere il fardello dell’immigrazione. Non dico che tutti debbano concordare con il principio delle quote obbligatorie, ma anche noi dell’Europa centrale dobbiamo farci carico degli oneri”. La scorsa settimana a Roma si è tenuta la National Conservatism Conference, tra gli ospiti c’era anche Orbán, accolto da un’ovazione. Applausi a ogni parola, mentre nel suo inglese perfetto o quasi spiegava i princìpi della sua dottrina europea. Tra i rappresentanti e gli ideologi del mondo conservatore sembrava sentirsi a suo agio, e più volte è stato ripetuto, anche dal premier, che il conservatorismo nazionalista è iniziato a est, in quei paesi che hanno dovuto combattere contro l’Unione sovietica e che oggi combattono per raddrizzare l’Ue, secondo quella similitudine astorica e tutta sbagliata di chi compara i sovietici di allora con gli europeisti di oggi. Mikulas Dzurinda ha combattuto contro la dittatura comunista nel suo paese, era ancora la Cecoslovacchia, poi è stato premier della Slovacchia e questo parallelismo lo definisce “perverso”. “Ho vissuto più della metà della mia vita sotto il comunismo. Ciò che volevamo era la libertà che per noi cattolici era anche libertà religiosa e oggi credo che riproporre le aspirazioni dei credenti sotto l’etichetta del nazionalismo conservatore sia fuorviante. Nell’allora Cecoslovacchia, il dissidente cristiano voleva sconfiggere la dittatura comunista in nome di valori universali, non per interessi nazionali. Nel 1989 non chiedevamo la separazione, ma l’integrazione con l’occidente. Il motto delle proteste era: ‘Vogliamo entrare in Europa’”. Viktor Orbán non sembra intenzionato a lasciare il Ppe, lo ha ripetuto anche a Roma mentre si lasciava corteggiare dal mondo conservatore. Il Ppe continua a essere diviso, anche la commissione dei tre saggi è divisa. L’indecisione riflette un’immagine della più grande delle famiglie europee un po’ debole, quasi a rischio Turingia. A chi si chiede come sia possibile che tra i popolari c’è chi crede che Fidesz possa ancora trovare un posto nel Ppe, Dzurinda risponde: “Non dovremmo dimenticare che Fidesz è già stato punito in modo significativo. Non può partecipare alle riunioni del Ppe, non può votare e non può proporre i propri candidati. Tuttavia, esiste ancora un canale di comunicazione che con l’espulsione scomparirebbe. Non so quanto sia reale la possibilità che Fidesz corregga le sue politiche. Ma la sospensione gli dà la possibilità di farlo”.

 

Il cordone sanitario /2. La vittoria del Sinn Féin alle elezioni irlandesi di sabato scorso ha portato a un gran dibattito sulla normalizzazione della politica e dei partiti, in particolare di un partito come il Sinn Féin che, come ha scritto Fintan O’Toole sull’Irish Times, ha “uno status mezzo dentro/mezzo fuori” la politica tradizionale della Repubblica irlandese. Il mandato popolare è chiaro, ed è a favore di Mary Lou McDonald, leader del Sinn Féin, che ha attualizzato il partito rendendolo, secondo la sintesi offerta da Melanie McDonagh sullo Spectator, un partito “con le idee economiche di Jeremy Corbyn, la mobilitazione giovanile di Momentum e le capacità comunicative di una leader come Nicola Sturgeon, premier scozzese”. i Troubles sono un ricordo sbiadito per i più giovani (che hanno votato in massa il Sinn Féin), e il fatto che un parlamentare appena eletto abbia gridato festoso in un pub “Up the ’Ra”, lo slogan a favore dell’Ira, non li sconvolge più di tanto. Sconvolge semmai gli altri partiti che hanno gestito la politica irlandese finora, il Fianna Fail e il Fine Gael, che hanno costruito un cordone sanitario attorno allo Sinn Féin e alla sua storia di braccio politico di un gruppo terroristico che è appena venuto giù. Entrambi i partiti avevano escluso ogni possibilità di alleanza con il Sinn Féin, ma dopo lo scossone elettorale il leader del Fianna Fail, Michel Martin, ha detto che il dialogo non è escluso (il suo vice lo ha poi smentito), mentre il premier uscente, Leo Varadkar, ha detto che andrà all’opposizione. La tentazione della normalizzazione è molto alta. Per ora la McDonald, che vuole diventare premier (ha vinto il voto popolare, ma ha un seggio in meno del Fianna Fail), ha iniziato a esplorare l’ipotesi di un governo tutto a sinistra con i Verdi, il Labour, i Socialdemocratici e il gruppo chiamato Solidarity–People Before Profit: anche così però non c’è la maggioranza. Ed è per questo che fa molto discutere – e riflettere e ripensare a che cosa sono stati i Troubles e a cosa vuol dire fare i conti con la propria storia – questo inedito confronto tra normalizzazione e instabilità.

 

Quella sala stampa è mia! Ora che la Brexit è realtà e i britannici sono tornati a casa, è tutta una corsa a riempire il vuoto inglese. Anche l’Italia, come ci racconta David Carretta da Bruxelles, aspira a entrare nella corte dei grandi del Consiglio europeo. I nostri diplomatici sono al lavoro per conquistare la sala delle conferenze stampa dove, prima della Brexit, avevano preso la parola Tony Blair, Gordon Brown, David Cameron, Theresa May e Boris Johnson (l’attuale premier è salito sul podio una sola volta lo scorso ottobre per annunciare il nuovo accordo di divorzio). E’ una questione di visibilità e di prestigio. L’Italia attualmente è relegata al piano interrato del Justus Lipsius – il palazzo del Consiglio dell’Ue – insieme a paesi medi e piccoli (dalla Spagna alla Grecia). La sala italiana non è modesta, ma nemmeno grandiosa. Nei Vertici europei delle grandi occasioni, le sedie si riempiono in fretta e rimangono solo posti in piedi. L’ex sala delle conferenze stampa del Regno Unito è molto più grande e soprattutto si trova al secondo piano, quello più nobile del Justus Lipsius, di fianco a Francia e Germania. I giornalisti delle grandi testate internazionali, che privilegiano le conferenze stampa di Emmanuel Macron e Angela Merkel, potrebbero decidere di fare tappa anche da Giuseppe Conte. All’Italia costerà un po’ di più, ma c’è chi fantastica sulle immagini del presidente del Consiglio che arriva a braccetto di Macron e Merkel. Prima però bisogna sconfiggere i Paesi Bassi, sempre loro, che hanno messo gli occhi sulla stessa sala. L’Italia appare favorita rispetto all’eterno rivale anche sul post Brexit. “E’ quasi fatta”, dicono. Ma un osservatore dell’Ue chiede: “Non è che finisce come l’Ema?”.