Fayez al Serraj, Giuseppe Conte e Khalifa Haftar (foto LaPresse)

Grandi pressioni sulla Libia, ma no, Haftar non è il cavallo vincente

Daniele Raineri

Molti leader internazionali alla conferenza di Berlino per negoziare la tregua. Le modifiche alla bozza d’accordo rivelano il piano del generale

Roma. Domani c’è la Conferenza di Berlino – finalmente una realtà, dopo che per mesi era stata soltanto un’ipotesi – e ci si aspetta che porti una soluzione alla guerra civile in Libia. Da una parte il premier di Tripoli Fayez al Serraj e dall’altra il generale libico Khalifa Haftar dovrebbero accordarsi su un cessate il fuoco e su tutta una serie di misure studiate per trasformare poi il cessate il fuoco in qualcosa di più duraturo. Sarebbe cruciale, perché a questo punto se riprendono i combattimenti in Libia sarà un macello peggiore di prima e sarà una guerra internazionale, con soldati turchi bombardati da droni emiratini e mercenari siriani che si scontrano con mercenari sudanesi equipaggiati con blindati egiziani. Il tutto nell’area che contiene circa la metà della popolazione del paese (il resto è spopolato) e che è più vicina alle coste italiane. Alla Conferenza di Berlino partecipano così tanti leader internazionali – dal russo Putin al turco Erdogan, dalla tedesca Merkel al segretario di stato americano Pompeo – che la pressione sui due capi libici è enorme: questa volta non possono permettersi i colpi di scena degli ultimi dieci giorni, come Serraj che non si presenta a Roma e Haftar che scappa da Mosca senza firmare. L’Italia seguirà con molta attenzione, perché se ci sarà un cessate il fuoco subito dopo partirà per la Libia una missione Onu con soldati italiani con il compito di sorvegliare che l’accordo tenga. Una cosa però è da tenere ben chiara a Berlino. Haftar ha scatenato questa guerra civile per prendersi la Libia. Ha convinto molte delle milizie che formano il suo “esercito” a combattere con la promessa di spartire i dividendi alla fine e se non riesce a mantenere sarà un problema. 

 

 

Inoltre è in debito enorme con i suoi sponsor esterni, primi fra tutti gli Emirati Arabi Uniti che da dieci mesi sovvenzionano i costi di una guerra che doveva durare due giorni al massimo (“prenderemo Tripoli nel giro di ventiquattr’ore”, aveva dichiarato ad aprile 2019 il portavoce di Haftar). Ha anche trasformato gli avversari politici che prima erano disposti a trattare con lui in nemici mortali. Se il generale non vince e torna a fare accordicchi diplomatici con gente che lo odia, perde la scommessa totale che ha fatto l’anno scorso. Haftar è a Berlino perché vuole negoziare una qualche forma preliminare di vittoria – poi se serve tenterà di prendersi il resto con un altro round di combattimenti. 

 

 

Queste cose si vedono da alcune modifiche apportate alla bozza dell’accordo di Berlino e ottenute dall’Agenzia Nova. In un paragrafo aggiunto si parla di un governo libico “nuovo e rappresentativo”. E’ una coppia di aggettivi che suona come un plotone d’esecuzione contro Serraj, che non è certo nuovo e non è rappresentativo – almeno per Haftar e i suoi. Un’altra modifica interessante è la sparizione della condanna contro i paesi che hanno violato l’embargo delle Nazioni Unite e hanno portato armamenti in Libia. Se Haftar non avesse ricevuto aiuti esterni fin dall’inizio, la sua offensiva sarebbe già finita da tempo. Le violazioni ora spariscono come se non fossero un problema. 

 

 

Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ieri in un’intervista allo Spiegel ha centrato un punto importante: Haftar si comporta come se avesse la vittoria militare in tasca ma non è così, anche se le sue milizie riuscissero a sfondare le linee e a entrare dentro Tripoli molte fazioni militari continuerebbero a guerreggiare – magari per anni. Il generale tende a sopravvalutarsi e molti cascano in questa sua visione delle cose.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)