(foto LaPresse)

Il giorno dopo l'attacco ai servizi russi, le tante versioni e il colpevole “senza qualità”

Micol Flammini

È morta un’altra vittima della sparatoria alla Lubyanka. Le autorità confermano il nome dell’omicida, ma c'è un silenzio che pesa più degli altri

Roma. Se ne sono incastrate molte di versioni sull’attacco alla sede dell’Fsb avvenuto giovedì sera a Mosca. I simbolismi sembrano essere tanti, la scelta del quartier generale, la Lubyanka occupata, fin dai tempi della Ceka dai servizi segreti sovietici e poi russi; la simultaneità (o quasi) con il concerto al Cremlino inaugurato da Putin in onore dei servizi segreti; e infine la data: alla vigilia della Giornata dell’agente segreto, conosciuta anche come Giornata del cekista. A sottolineare le concordanze è stata una fonte dell’Fsb, che ha raccontato tutto all’agenzia di stampa Reuters, ma stabilire fino a che punto arrivi la realtà e dove invece emerga la finzione è ancora difficile, Mosca è piena di simboli. A fine giornata l’Fsb aveva dichiarato che un uomo armato di kalashnikov era stato neutralizzato subito dopo aver ucciso un agente e ferito altre cinque persone. Alcuni giornalisti presenti sul posto hanno cercato di ricostruire la vicenda, troppi spari, troppa agitazione, troppi comunicati, hanno detto, l’attentatore non poteva essere uno solo e una nota diffusa dalle autorità dopo l’attacco parlava infatti di tre uomini armati e tre morti. La nota è stata smentita e fatta passare come un comunicato diffuso da un falso account dell’Fsb e in molti hanno fatto notare l’incongruenza.

 

Ieri in ospedale è morta la seconda vittima e i media russi hanno iniziato a far circolare l’identità dell’attentatore: Evgeny Manyurov, un uomo di 39 anni, disoccupato e con una passione per le armi. In molti, a cominciare dal canale Telegram Baza, sono andati subito a casa del sospettato prima dell’arrivo della polizia. Hanno intervistato sua madre Svetlana, in alcuni video si vede la signora in abiti da casa e senza denti che apre la porta e racconta tutto su suo figlio: “Era disoccupato, l’ho scoperto per caso pochi giorni fa, trascorreva la giornata parlando inglese al telefono con degli arabi, ma io non capivo – assicura la signora – non conosco l’inglese”. La casa è fuori Mosca, a Podolsk, è piccola, povera, fatiscente e con tanto fango attorno. I giornalisti che erano lì hanno raccontato di aver avuto dei problemi con la polizia. La giornalista di Baza, Anna Nikitina, ha detto che non appena le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nell’appartamento hanno messo lei e Svetlana con la faccia per terra, Anna poi è stata colpita sul volto dalla polizia e ha ricevuto delle minacce. Le autorità hanno confermato soltanto in serata che ad attaccare la Lubyanka è stato Evegeni Manyurov, un identikit complesso con una particolarità se si guarda alla storia degli attentati in Russia: è russo.

 

Manyurov, oltre ad amare le armi, frequentava spesso il poligono ed era arrivato terzo a una competizione di tiro a Mosca, “sparare gli piaceva moltissimo”, ha detto sua madre. Aveva lavorato in alcune agenzia di sicurezza private e secondo quanto riferito dal padre ai media era anche stato una guardia dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Mosca. Il motivo dell’attacco ancora non si conosce, Manyurov aveva un piccolo arsenale in casa, pistole, fucili, granate, e nello zaino che aveva con sé la sera della sparatoria la polizia ha trovato di tutto, anche un ordigno artigianale. Il quotidiano Kommersant ha raccontato che secondo alcuni testimoni, l’attentatore avrebbe gridato degli slogan islamisti. Questo, come fa notare Mark Galeotti, attento osservatore di cose russe, mette i servizi di sicurezza davanti a una loro debolezza: “L’antiterrorismo dipende purtroppo da un certo grado di profilazione razziale – ha scritto su Twitter – i cittadini di etnia russa radicalizzati sono un incubo costante per l’Fsb”. L’unica cosa che appare chiara finora, e che si aggiunge alle perplessità, è il tentativo di descrivere Manyurov come un neudachnik, si direbbe in russo, un fallito, un perdente, “un uomo senza qualità”. Una descrizione utile ai dubbi e alle versioni che continuano a sovrapporsi. A coronare le incongruenze è stato poi il silenzio pesante da parte del presidente russo Vladimir Putin che ieri in serata non aveva ancora commentato. “Il presidente è stato allertato”, aveva detto il portavoce Dmitri Peskov alla stampa giovedì sera. Ma durante la giornata del cekista da parte del presidente nemmeno una parola.

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