The Immigrants' Ship di John Charles Dollman

L'immigrazione non c'entra con la globalizzazione

Eugenio Cau

Un professore di Oxford spiega che c’è molta meno voglia di migrare di quanto ci dicono i populisti. È sorprendente quanto il mondo sia connesso e quanto poco la gente si sposti da un paese all’altro

L’immigrazione è l’orfano della globalizzazione”, dice Ian Goldin, e subito rimani spiazzato. E’ facile pensare che la nostra sia l’èra delle migrazioni di massa e che quest’epoca di voli aerei poco costosi, confini abbattuti e business planetario sia il perfetto palcoscenico per spostamenti epocali di popoli. Sono quasi due costanti della vulgata comune, molto amata dai populisti che brulicano in tutto occidente: siamo invasi dai migranti, e la ragione dell’invasione è questo mondo globalizzato e senza regole. I populisti hanno perfino dato nuova linfa a un vecchio termine, quello di “globalista”, per dare corpo al grande scontro ideologico che sta attraversando il nostro mondo e che mette in relazione globalizzazione e immigrazione: da un lato ci sono i globalisti, appunto, che in nome della totale apertura vogliono spalancare i confini e fare entrare le orde, e dall’altro i sovranisti, che difendono il sacro territorio della patria. Poi arriva Ian Goldin, professore di Globalizzazione e Sviluppo all’Università di Oxford, fondatore (e, fino al 2016, direttore) della Oxford Martin School, e una tra le persone più brave al mondo quando si tratta di osservare con sguardo ampio i fenomeni globali e dice che no, che l’èra delle migrazioni di massa è stata un’altra, e che l’immigrazione, in realtà, con la globalizzazione non c’entra niente. Al contrario: è sorprendente quanto il mondo sia connesso e quanto poco la gente si sposti da un paese all’altro.

  

Ian Goldin è stato il primo direttore della Oxford Martin School, che ha come compito affrontare “le sfide del XXI secolo”

 

Goldin è nato in Sudafrica e ha una carriera multidisciplinare. Lo dimostra la sua biografia: è stato consigliere di Nelson Mandela negli anni Novanta, subito dopo la fine dell’apartheid, ed è stato vicepresidente della Banca mondiale agli inizi del Duemila. La sua bibliografia è amplia, e spazia da titoli sulla globalizzazione ad altri sulla storia dello sviluppo, sulla governance globale e sulle politiche demografiche – oltre che, ovviamente, sull’immigrazione. E’ facile capire perché nel 2005 è stato scelto come direttore fondatore della Oxford Martin School, un’unità di ricerca nella prestigiosa università britannica che ha il compito di studiare “le sfide e le opportunità più importanti del Ventunesimo secolo” (ampio programma). La Oxford Martin School ospita decine di ricercatori che si occupano di robotica (lo ricordate quello studio del 2013 che creò scalpore globale perché sosteneva che il 47 per cento dei posti di lavoro in tutto il mondo era a rischio a causa dell’ascesa dell’intelligenza artificiale? ecco, l’hanno scritto due ricercatori della Oxford Martin School – e, per la cronaca, lo studio fu enormemente frainteso, perché i ricercatori non dicevano che i posti di lavoro sarebbero andati persi in automatico, anzi), di sviluppo industriale, di cambiamento climatico, di tecnologie genetiche, di migrazioni e di tutto quello che riguarda il futuro dell’umanità. Ho incontrato Goldin a Capri, ospite dell’Ey digital summit, il forum sull’innovazione organizzato dalla società di servizi professionali e di consulenza Ernst & Young.

 

A Capri Goldin ha parlato del tema del suo ultimo libro, “Age of discovery” (il titolo dell’edizione italiana è “Nuova età dell’oro”, pubblicato da Laterza), che spiega come la globalizzazione abbia generato un nuovo Rinascimento e che, esattamente come il Rinascimento che si studia a scuola, la nostra epoca è portatrice di progressi meravigliosi nella tecnica e nell’intelletto, ma anche di enorme instabilità. Viviamo in un nuovo Rinascimento perché la globalizzazione ha liberato il flusso della conoscenza e questo ha generato scoperte rivoluzionarie che hanno reso la nostra èra la migliore della storia dell’umanità secondo tutte le metriche possibili. Ma assieme alla conoscenza e alle merci si muovono le diseguaglianze economiche, la paura di restare indietro, perfino le epidemie, e quest’epoca dorata rischia di trasformarsi in un’epoca di destabilizzazione. Cinquecento anni fa, il Rinascimento fiorentino si concluse con i roghi di Savonarola, quello europeo con decenni di guerre religiose. Noi invece dobbiamo lavorare per fare in modo che che il buono della globalizzazione non vada sprecato.

  

I sovranisti cavalcano il binomio globalizzazione-immigrazione contro i cosiddetti globalisti, ma la loro teoria è facile da smontare

Durante una lunga intervista con il Foglio, in cui si è molto parlato di Rinascimento e di intelligenza artificiale, il discorso è presto caduto sull’immigrazione. E’ un tema centrale perché, come dicevamo, si tende a pensare che l’immigrazione di massa sia il frutto degenerato della globalizzazione, e questo è importante perché le crisi migratorie sono uno dei fattori dominanti dell’ascesa dei populisti in tutto occidente. Da Donald Trump a Matteo Salvini, tutti vedono nel binomio globalizzazione-immigrazione il loro nemico, e lo sfruttano per suscitare rabbia e risentimento.

  

In realtà il binomio è piuttosto facile da spezzare. “In quest’epoca di globalizzazione l’immigrazione costituisce un’eccezione, perché mentre in tutti gli altri ambiti la libertà di movimento tra i paesi è aumentata oggi invece c’è molto meno movimento di popoli”, dice Goldin. “I migranti sono circa il tre per cento della popolazione mondiale, e questa quota è simile a quella che c’era cent’anni fa e inferiore a quella della fine del Diciannovesimo secolo”. Pensateci un attimo: negli ultimi decenni tutti gli scambi da un confine all’altro sono aumentati a livello planerario: il mare è solcato da portacontainer gigantesche, non ci sono mai stati così tanti voli aerei così economici, i viaggi per business e turismo aumentano di circa il 10 per cento all’anno, le vaccinazioni e altre scoperte hanno reso i viaggi più sicuri. Tutto si sposta e sembra in movimento costante, ma la percentuale di persone che decide di lasciare il proprio paese per andare in un altro è la stessa da cent’anni – e occhio: qui non si parla di rifugiati ma di migranti economici, quelli che abbandonano un posto per cercare fortuna in un altro.

   

Le connessioni e gli spostamenti non sono mai stati così frequenti, ma la percentuale di persone che emigrano è ferma da cent’anni

Evidentemente il numero di persone che si sposta è più alto, perché oggi siamo 7,7 miliardi di persone al mondo, ma una volta che abbiamo normalizzato i calcoli per il numero di stati nuovi che esistono oggi rispetto a cent’anni fa la percentuale rimane costante. E questo senza considerare che la vera epoca dell’emigrazione di massa fu il Diciannovesimo secolo, specie nella sua seconda metà. “L’Italia è un paese di migrazioni di massa, basta andare a New York o Boston per accorgersene”, dice Goldin. “A un certo punto verso la fine dell’Ottocento un terzo degli italiani, specie nel sud Italia, è emigrato, e lo stesso vale per altri paesi come la Svezia e l’Irlanda, dove storicamente la risposta delle persone alla disoccupazione, alla povertà e alle carestie era di spostarsi in altre parti dello stesso paese o di cambiare paese”. Quando un terzo di un paese si sposta verso altri paesi, questa è migrazione di massa. Ma sono casi eccezionali e rari. La migrazione che abbiamo oggi non è nuova e soprattutto non è un’emergenza, anche se spesso appare come tale.

 

La ragione è molto semplice: tendenzialmente la gente preferisce stare a casa propria.

 

“Prendiamo l’Unione europea. Benché i cittadini Ue abbiano piena libertà di trasferirsi all’interno dell’Unione vediamo in realtà pochissimo movimento. La crisi finanziaria è stata molto interessante da questo punto di vista, perché c’erano luoghi in Spagna, Italia e Grecia in cui la disoccupazione era eccezionalmente alta, arrivava a picchi del 40 per cento, ma la gente non è migrata. Potevano andare ovunque in Europa, lo dice il trattato di Schengen, ma nella maggior parte dei casi non abbiamo visto fenomeni di spopolamento”, dice Goldin, secondo cui questo è un fenomeno relativamente nuovo: alti tassi di disoccupazione non hanno portato a grandi migrazioni. E’ una prova del fatto che le persone, quando possono, preferiscono stare a casa propria, e soltanto un’enorme disperazione – o il timore per la propria vita – può spostarle da lì.

  

“Una questione del tutto differente sono i rifugiati. I migranti economici sono un conto, i rifugiati sono un altro. Il rifugiato ha una definizione legale che nasce dalla Convenzione di Ginevra. Parliamo di persone perseguitate o in pericolo di vita”, dice Goldin. Anche nel caso dei rifugiati, gli esodi di cui spesso si parla in occidente sono da ridimensionare. “Sappiamo che il 95 per cento dei rifugiati nel mondo rimane nel proprio paese e si muove da una parte all’altra del paese stesso, oppure va in uno stato vicino. Il 95 per cento dei rifugiati siriani è oggi in Turchia, in Libano e in Giordania. Ma alcuni rifugiati, non soltanto dalla Siria, arrivano in Europa, e davanti a questi arrivi ci sono soltanto due possibilità: possiamo lasciare che le persone muoiano o possiamo salvare la loro vita. Non è una questione economica, è una questione morale”.

  

Raffaello Gambogi - Gli emigranti (1894), 146 x 196 cm, olio su tela. Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno


   

C’è una ragione se la Silicon Valley è il posto più dinamico del mondo, un terzo della popolazione è nato fuori dagli Stati Uniti

Chiedo a Goldin della crisi migratoria nel Mediterraneo, e lui dice che il punto fondamentale è il “burden sharing”, la condivisione della responsabilità: “L’Italia, la Grecia e la Spagna sono condannate dalla geografia. Questo è un incidente della storia, i paesi da cui provenivano i rifugiati storicamente sono stati sempre variabili, ma al momento questa è una crisi europea. Il punto fondamentale è condividere la responsabilità. E’ sbagliato aspettarsi che l’Italia, la Spagna, la Grecia o Malta accettino tutti i rifugiati. La solidarietà deve essere europea e globale, e per questo mi vergogno di ciò che sta facendo il Regno Unito, il paese in cui abito, che ha accolto poche migliaia di rifugiati durante questa crisi”.

  

Ma appunto, Ian Goldin è uno che guarda ai fenomeni globali con l’occhio lunghissimo. Sa che le migrazioni fanno paura (anche se i popoli che accolgono con riluttanza spesso dimenticano che i più spaventati sono quelli che migrano), sa che creano disagi e incomprensioni e sa che la storia non consola chi teme che gli spostamenti di popoli possano danneggiare il proprio stile di vita o perfino la propria sicurezza. Le migrazioni sono fenomeni sociali complessi, spesso portatrici di scontri, problemi, violenze. Ma Goldin sa anche che “Non saremmo qui se non ci fossero le migrazioni”.

 

“E’ ciò che ci insegna la genetica, come specie veniamo tutti dall’Africa orientale. Se non ci fossimo spostati saremmo morti, uccisi da una carestia o da predatori. Abbiamo popolato il mondo, e chiunque pensa di essere un puro italiano o un puro inglese dovrebbe farsi un test genetico. Presto scoprirebbe che non siamo quello che pensiamo di essere. E questo è ciò che ci rende ciò che siamo come specie. Perché abbiamo imparato nel tempo ad adattarci, a migrare, a esplorare, e la nostra adattabilità è stata la causa delle grandi scoperte nella civilizzazione nel corso della storia. E’ questa la ragione per cui la Silicon Valley è il posto più dinamico del mondo, perché oltre un terzo di chi vi abita è nato fuori dagli Stati Uniti. Lo stesso vale per Londra e per tutte le altre aree avanzate del mondo. L’immigrazione crea dinamismo. Lo vediamo anche nel mondo della scienza e della cultura, dove moltissimi premi Nobel e premi Oscar sono immigrati o figli di immigrati. Loro sono i coraggiosi, loro portano nuove esperienze, catalizzano, impollinano le idee, e questo è vitale per il dinamismo di una società. Uccidi l’immigrazione e uccidi una società”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.