Abiy Ahmed Ali (foto Wikimedia Commons)

Un Nobel sacrosanto

Giulia Pompili

Abiy Ahmed Ali ha dato all’Etiopia una speranza. Non c’entra soltanto l’Eritrea. Un sogno democratico

Roma. Se Abiy Ahmed Ali abbia cambiato per sempre l’Etiopia, e quindi il Corno d’Africa, e quindi il continente africano, è forse ancora presto per dirlo. Di sicuro il premio Nobel per la Pace che gli è stato assegnato ieri dall’Accademia di Svezia è un premio alla speranza. Ma una speranza concreta, offerta da chi ha affrontato problemi che nessuno finora era riuscito a risolvere, azzardando delle soluzioni. Abiy Ahmed Ali ha iniziato un percorso di speranza, ha scritto nelle motivazioni il comitato del Nobel, e ha bisogno di incoraggiamento. Anche noi ne abbiamo bisogno. 

 

 

L’immagine più famosa di Abiy Ahmed Ali, quella grazie alla quale ha vinto il Nobel, lo ritrae mentre scende dall’aereo ad Asmara sorridente, e va incontro al presidente e dittatore eritreo Isaias Afewerki. Era il 7 luglio del 2018 e una settimana dopo Isaias ricambiò e visitò Addis Abeba. Dopo oltre vent’anni, un conflitto sanguinoso, più di centomila morti, i due avevano ristabilito i rapporti diplomatici e le comunicazioni, e finalmente intere famiglie potevano riunirsi. Ma Abiy Ahmed Ali non è solo questo e l’Eritrea è un piccolo pezzo della sua storia. 

 

 

Eletto il 2 aprile dello scorso anno, Abiy Ahmed Ali è arrivato al governo di Addis Abeba in un momento di tensione molto alta – per le proteste interne, con molti morti e molti arrestati, per i conflitti etnici, per gli scontri al confine. Ma la prima cosa che ha fatto, Abiy, è stata combattere la paura. Quella che, secondo lui, per anni era stata diffusa tra i cittadini: paura dell’altro, paura della democrazia, paura del dissenso. Nel primo mese da primo ministro ha eliminato lo stato d’emergenza. Ha liberato i prigionieri politici, giornalisti e attivisti. Ha tolto la censura di stato, alleggerito le regole sulla formazione dei partiti politici. Ha parlato apertamente di diritti umani, sostenendo indagini su funzionari e ufficiali. A giugno, soltanto due mesi dopo essere diventato primo ministro, durante una manifestazione pubblica ad Addis Abeba hanno tentato di lanciargli addosso una granata. Subito dopo ha detto: “L’amore vince sempre. Uccidere gli altri è una sconfitta. Vorrei dire a quelli che tentano di dividerci: non ci riuscirete”. Parlava anche al suo partito, il partito unico d’Etiopia al potere dal 1991; anche lì dentro molti soffrono il suo riformismo. Eppure, mentre altri governi africani continuavano la loro ricorsa verso l’autoritarismo, quello di Abiy Ahmed Ali prendeva la strada opposta. Ed è un esempio importante, perché l’Etiopia è il paese più popoloso d’Africa ma è anche la nona economia del continente. E si tiene perfettamente in bilico tra l’alleanza con l’America e la cooperazione cinese. 

 

 

Certo, l’apertura e il dialogo non arrivano mai gratis. I negoziati con i gruppi armati non hanno portato ancora alla resa, e anzi, ha fatto uscire allo scoperto alcuni guerriglieri in zone ancora difficili. Le elezioni generali che dovrebbero tenersi il prossimo anno potrebbero essere rimandate, perché per due volte non è stato possibile eseguire il censimento, e si prevedono ancora tensioni.

 

“Qualcuno penserà che quest’anno il premio sia stato assegnato troppo presto. Il comitato norvegese per il Nobel crede che gli sforzi di Abiy meritino riconoscimento e incoraggiamento”, ha detto il presidente del comitato del Nobel Berit Reiss-Andersen. Ma il problema è proprio questo: il Nobel per la Pace è il più difficile da assegnare. Non è scientifico, verificabile, non premia un progresso dell’umanità come quello per la Chimica o per la Fisica; non si tratta di fare una scelta di dibattito culturale, come con quello per la Letteratura. Finora abbiamo creduto che ogni vincitore di Nobel per la Pace fosse automaticamente trasformato in santo: l’ex presidente americano Barack Obama, la leader birmana Aung San Suu Kyi, l’ex presidente sudcoreano Kim Dae-jung, che nel 2000 provò il riavvicinamento con il Nord, e sappiamo com’è andata a finire. Il premio a Abiy Ahmed Ali non è una santificazione, ma una speranza concreta.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.