Abiy Ahmed Ali

Un leader africano su cui puntare

Maurizio Stefanini

Abiy Ahmed Ali è il nuovo premier dell'Etiopia, il paese che cresce di più al mondo. Ha liberato i prigionieri politici, fatto la pace con i vicini, e vuole far “decollare l'Africa”

“Bisogna che gli africani possano restare in Africa”, è un mantra che in clima di polemiche su barconi e immigrazione viene oggi molto ripetuto. Ma per ciò c’è bisogno di leader all’altezza. Un personaggio allora da tener d’occhio – proprio per quello che ha fatto in questi ultimi giorni – è Abiy Ahmed Ali. Dal 2 aprile, primo ministro di Etiopia: il primo leader di etnia oromo e di fede protestante in un paese finora sempre governato da copti ahmara o tigrini.

 

Nato il 15 agosto del 1976, Ahmed si è formato nell’esercito, facendo la carriera di ufficiale delle Trasmissioni fino al grado di tenente colonnello. Anche Gheddafi e Chávez erano colonnelli delle Trasmissioni quando tentarono l’assalto al potere, ma Ahmed invece di tentare golpe fu cooptato al governo, come ministro della Scienza e della Tecnologia. Quando fu fatto premier, in molti pensarono a una figura di pura facciata. La sua è infatti la stessa etnia di Feysa Lilesa: la medaglia d’argento alla Maratona olimpica che aveva attraversato il traguardo incrociando le braccia a X – nel gesto di protesta con cui migliaia di oromo sono scesi in piazza negli ultimi tre anni contro un governo da loro tacciato di repressivo e discriminatorio. Invece sul piano interno Ahmed non appena insediato ha subito iniziato a liberare prigionieri politici: oltre 7.600 solo a maggio e solo nella regione oromo. Alcuni leader oppositori che rischiavano la pena di morte per terrorismo sono stati non solo graziati, ma addirittura da lui ricevuti. E poi ha tolto lo stato di emergenza.

 

Né è stata pacificazione solo all’interno. Sul piano esterno, infatti, con l’annunciare la rinuncia alla città disputata di Badme Ahmed ha accettato i termini dell’Accordo di Algeri del 2000, ponendo fine a uno stato di virtuale belligeranza con l’Eritrea che durava da vent’anni. La pace regionale, dice, gli serve per farsi concedere dai paesi vicini i porti su cui l’Etiopia intende appoggiare una nuova e potente marina, pur non avendo sbocchi al mare. Per questo stato di guerra l’Eritrea mantiene un regime autoritario durissimo, con un servizio militare a tempo indeterminato – per uomini e donne. Proprio per sfuggirvi molti eritrei si imbarcano sui gommoni che creano l’emergenza nel Mediterraneo.

 

Tornando all’Etiopia, secondo la Banca Mondiale è stata nel 2017 il paese a più alta crescita del mondo, con un più 8,3 per cento. Mentre il pil cresceva, però, la politica si chiudeva, con l’opposizione che dopo aver conquistato nel 2005 un terzo dei deputati spariva dal Parlamento alle elezioni del 2010 e 2015. E dal 2015 iniziava appunto la protesta etnica di oromo a ahmara. Insomma, un classico percorso di sviluppo autoritario alla cinese, come è ormai di moda da varie parti. Nell’annunciare l’apertura politica e diplomatica assieme a un vasto piano di privatizzazione delle imprese di stato Ahmed lancia ora un nuovo modello. “Se si vuole che la nostra regione decolli”, dice, “bisogna rovesciare tutto”.


  

Questo articolo è stato modificato alle 12:37 del 18 giugno per correggere la religione di Abiy Ahmed Ali, che è protestante e non musulmana come erroneamente scritto in un primo momento. Si ringraziano i lettori per la segnalazione.