Le immagini dell'incontro dello scorso agosto tra Donald Trump e Kim Jon un

Kim ha fregato Trump

Giulia Pompili

La personal diplomacy americana ha fallito anche con la Corea del nord. Che ora è più forte

Roma. La strategia della massima pressione non funziona più. Quella della “personal diplomacy” funziona ancora meno. Sin dalla sua elezione, il presidente americano Donald Trump ha usato alternativamente le due strategie contro la Corea del nord. Il risultato è che il regime di Pyongyang è sempre più ricco, e ha sempre più forza negoziale, e la politica estera americana è sempre più debole.

 

  

Ieri 38th North, il centro di ricerca sugli affari nordcoreani più influente in America, finanziato dallo Stimson Center, ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente: “Maximum Pressure Against North Korea, RIP”. Lo studio è firmato da Stephanie Kleine-Ahlbrandt, che è l’ex capo del settore Finanze ed economia di un organo molto importante delle Nazioni Unite, cioè il Panel di esperti che si occupa di monitorare il funzionamento della “Risoluzione numero 1874” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la prima contro la Corea del nord datata 2009. Scrive la Kleine-Ahlbrandt che “le sanzioni sono uno strumento politico per indurre un cambiamento nel comportamento di un paese. […] Eppure sono ormai diventate fine a se stesse, sembrano poste come punizione e per dare l’impressione che si stia facendo qualcosa. Anche questo obiettivo è illusorio. Nel 2019, dopo tre anni di strategia di ‘massima pressione’, con sanzioni unilaterali degli Stati Uniti e dell’Onu, rileviamo pochi segnali di disagio macroeconomico nordcoreano”. Spiega l’analista che le sanzioni vanno modificate, spostate, vanno aggiunte periodicamente nuove entità per sostenere la pressione ed evitare le elusioni, perché la Corea del nord è diventata molto abile a farlo. Insomma bisogna lavorarci sopra. C’è poi il ruolo del Panel di esperti, che fa un lavoro necessario ma antipatico: mostrare ai governi dei paesi membri dove sbagliano. E se c’è una cosa che l’Amministrazione Trump non sopporta è proprio questa. La Kleine-Ahlbrandt ricorda di quando, nel 2018, l’allora ambasciatore americano all’Onu, Nikki Haley, cercò di bloccare la pubblicazione di un rapporto del Panel perché non dava abbastanza la colpa alla Russia nel traffico illegale di petrolio da parte della Corea del nord. Ma ogni cosa scritta nel rapporto del Panel di esperti, che funziona proprio come un team di intelligence, deve essere verificata. E in quell’occasione, spiega Kleine-Ahlbrandt, non c’erano abbastanza prove.

 

Anche l’apertura politica di Trump ha avuto effetti: mentre si indebolisce il ruolo del Consiglio di Sicurezza e delle sanzioni internazionali, “le relazioni politiche di Pyongyang le assicurano di stare al passo con lo sviluppo di armamenti e di essere protetta da ulteriori azioni delle Nazioni Unite. Kim ha incontrato il presidente americano due volte e i presidenti di Cina e Russia, e ha solide relazioni diplomatiche ed economiche con vari paesi. Dal punto di vista delle sanzioni, tutte queste relazioni consentono al personale diplomatico di continuare a svolgere una vasta gamma di attività illecite in tutto il mondo”. Perfino in Italia, come rileva l’ultimo rapporto datato settembre 2019: Kim Su Gwang, la spia nordcoreana sotto copertura che ha abitato per molto tempo in Italia, ex dipendente del World Food Programme, anche dopo il suo licenziamento e l’annullamento del suo passaporto diplomatico ha continuato a fare affari in Italia. Per esempio, dal 15 novembre del 2016 gestiva gli affitti di un appartamento nel quartiere Torrino a Roma, da cui ricavava 850 euro al mese che mandava in Corea del nord. Dopo l’intervento del Panel di esperti dell’Onu, e le raccomandazioni al nostro ministero dell’Economia, l’Italia si è attivata. Ma solo da pochi giorni l’appartamento risulta essere in vendita.

 

“L’assenza di una forma, seppure imperfetta, di pressione contro la Corea del nord ha messo il paese in una posizione di forza”, scrive Kleine-Ahlbrandt. “La Corea continua a costruire il suo arsenale sotto alla soglia di preoccupazione del presidente Trump. Il presidente americano non è disposto ad ammettere il fallimento, cioè la mancanza di progressi sulla denuclearizzazione, e tantomeno a cambiare approccio nei negoziati con il Nord”. L’ultima prova di questo fallimento è stata a Stoccolma, sabato scorso. Tutti erano contenti del nuovo round di negoziati dopo mesi di stallo, perfino l’Europa aveva la sua parte da paese ospitante. Ma dopo otto ore il capo negoziatore di Pyongyang, Kim Myong Gil, è uscito e ha detto: “I colloqui non sono quelli che ci aspettavamo, e siamo costretti ad andarcene”. Dopo poco, negando l’evidenza, la portavoce del Dipartimento di stato Morgan Ortagus ha detto che “Washington ha portato idee creative sul tavolo e c’è stata una buona discussione con la controparte nordcoreana”. Si dovesse ricominciare da capo a trattare, adesso, Pyongyang sarebbe molto più forte.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.