L'Indonesia ha votato

Giulia Pompili

193 milioni di elettori e un presidente costretto a giocare la carta dell’islam. La posta in ballo

Roma. I risultati definitivi di queste elezioni si sapranno soltanto a maggio, quando sarà completato il conteggio delle schede, ma nel frattempo la notizia è un’altra: in Indonesia è andata in scena mercoledì la più grande prova democratica del mondo. Si è votato in un giorno solo per le elezioni presidenziali, parlamentari e regionali, in un paese da 193 milioni di elettori (su 264 milioni di abitanti). Secondo il Lowy Institute è il più complicato giorno elettorale della storia del mondo, perché in India, per esempio, che è la democrazia più popolosa di tutte, le elezioni sono scaglionate e durano quasi due mesi. A prescindere dagli inutili primati e dai numeri, per un paese come l’Indonesia, che solo vent’anni fa si è liberato dall’autoritarismo, il voto è motivo d’orgoglio. E infatti mercoledì Instagram era pieno d’immagini di donne e uomini sorridenti, che sotto l’hashtag #suaraIndonesia mostravano il dito segnato dall’inchiostro viola – e halal, com’è d’obbligo per i musulmani del paese che sono la maggioranza, oltre l’80 per cento.

 

Ed è proprio la religione ad aver polarizzato queste elezioni presidenziali. Scriveva mercoledì sul Financial Times Stefania Palma: “Il personaggio più importante di queste elezioni potrebbe non essere nessuno dei due candidati ma un 76enne incaricato di aumentare le credenziali religiose di Joko Widodo”. La battaglia presidenziale di oggi è la fotocopia di quella di cinque anni fa, con Joko Widodo, conosciuto come Jokowi, 57 anni, che cerca la riconferma del mandato, e l’ex generale Prabowo Subianto, 67 anni – un personaggio controverso per il suo stile piuttosto autoritario che già alle elezioni di cinque anni fa era stato battuto da Widodo. La campagna elettorale però non è stata affatto simile, e di mezzo c’è soprattutto la questione religiosa. Ma’ruf Amin, capo della Ulema Nahdlatul, la più grande organizzazione islamica e conservatrice d’Indonesia, è stato scelto da Widodo come candidato alla vicepresidenza. Una decisione, quella di scegliere un compagno di cordata vicino alla comunità più conservatrice dei musulmani, che è stata criticata da molti perché in contraddizione con i messaggi di laicità e pluralità della precedente campagna elettorale di Widodo. I tempi però sono cambiati, e quello che vari analisti hanno definito il “populismo islamico” sta modificando la narrazione della politica indonesiana. L’evento più importante di questo cambiamento è avvenuto nel 2016, quando il governatore di Giacarta Basuki Tjahaja Purnama, meglio conosciuto come Ahok, cristiano e di origini cinesi, è stato accusato di blasfemia e arrestato per aver più volte espresso un messaggio di laicità: non deve importarvi se sono cristiano, ma se sono un buon politico. Ahok era molto vicino a Jokowi, di cui aveva preso il posto di comando nella capitale indonesiana. La forza del messaggio conservatore islamico, veicolato anche dai social network, ha fatto cambiare strategia al presidente, che ha sacrificato la questione delle minoranze religiose e del pluralismo liberale per concentrarsi di più sulla fiorente e dinamica economia indonesiana.

 

Il millennial

Sebbene i sondaggi diano quasi per scontata una seconda vittoria di Jokowi, dall’altra parte c’è l’opposizione di Prabowo, un politico navigato “molto legato alla élite politica tradizionale indonesiana”, ha scritto la Bbc. La sua prima moglie è la figlia del generale Suharto, il dittatore che guidò l’Indonesia dal 1967 al 1998, e lui stesso si definisce un ultra nazionalista, è molto critico nei confronti degli investimenti esteri diretti verso il paese (Jokowi, invece, negli ultimi cinque anni ha aperto e snellito le burocrazie protezioniste) e vuole battersi “contro le élite del paese” ristabilendo “i valori tradizionali islamici”. Insomma, Prabowo è l’uomo forte che abbiamo imparato a riconoscere nelle elezioni recenti più o meno in qualunque latitudine. Oltre ai temi più legati al populismo religioso la sua scelta vincente è stata quella del candidato alla vicepresidenza: più che Prabowo, sembra che la gente apprezzi il suo vice Sandiaga Uno, 49 anni, ex vicegovernatore di Giacarta, l’uomo più ricco dell’Indonesia. Con 4,7 milioni di follower su Instagram, “Sandi” ha studiato a Washington e lavorato a Singapore, ha fondato negli anni Novanta il fondo d’investimenti Saratoga, veste spesso all’occidentale, con il cappuccio della felpa in testa e gli occhiali da nerd, è uno dei migliori amici di Erick Thohir (l’ex presidente dell'Inter che, guarda il caso, è anche manager della campagna di rielezione di Jokowi). Sandi è il poster boy di una generazione di giovani che ha voglia di crescere e arricchirsi, che si interessa poco di politica ma molto di business, di tecnologia e di startup. E’ stato il colpo di genio per recuperare i voti dei millennial indonesiani. E’ andato a parlare in tutte le trasmissioni degli youtuber più visualizzati, ha usato molto i social, e all’Indonesia Millennial Summit di gennaio scorso ha detto “voi dovete essere protagonisti, non spettatori”. I giovani – 80 milioni di elettori – sembra che abbiano apprezzato. Si parla già di lui come candidato alla presidenza nel 2024.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.