Chuka Umunna (a destra) con una sua fan. L'ex ministro ombra è il volto più noto dell'Independent Group britannico, formato da fuoriusciti del Labour e dei Tory, contrario alla Brexit (foto LaPresse)

Moderato, ma sexy

Paola Peduzzi

Gli estremismi di destra e di sinistra ci hanno tolto tutto, le parole e le speranze: è ora di combattere una battaglia per la normalità. Il primo punto segnato dal centrismo e il look del buon senso

Beto O’Rourke non ha ancora deciso se si vuole candidare alle presidenziali del 2020, ma il gruppo “Draft Beto” è già operativo sui social con il servizio “Beto Alert” che avviserà i fan trepidanti sul futuro dell’ex deputato del Texas, che ha perso a novembre la sua corsa per il Senato ma ha conquistato la fascia (che per qualche motivo incomprensibile piace molto) del “vincitore morale” della campagna texana contro il burbero conservatore Ted Cruz. O’Rourke potrebbe correre di nuovo per il Senato oppure candidarsi presidente nelle affollate primarie democratiche per il 2020 oppure – questa è l’ipotesi più chiacchierata – puntare al ticket, cioè fare il vicepresidente di qualcun altro. La riserva si scioglierà presto, ma in questi giorni di attesa, molti si sono soffermati su una frase che O’Rourke ha detto la settimana scorsa a El Paso, la sua città: “Sono un capitalista – ha osato dire – Non vedo come possiamo affrontare le tante sfide che la nostra nazione ha davanti senza sfruttare almeno in parte il potere del mercato”.

 

O’Rourke, icona dem, ha osato dire: “Sono un capitalista”. Gelo, distanza e stupore: ma non lo vede che il vento tira dall’altra parte?

Gelo. Come gli salta in mente, a questo politico-icona senza mostrine, di autodenunciarsi con questa brutale ingenuità, usare quella parola tremendissima, “capitalista”, che non usa più nessuno e che lo fa tanto texano servo dei ricconi petrolieri? Il vento soffia nella direzione opposta, lontanissimo dal capitale, verso quel “socialismo” già mostrificato dai media conservatori. Gelo e distanza. Cas Mudde, esperto di populismo e di estremismo di destra, ha tuittato: “Non sono un fan di Beto per molte ragioni, ma la più importante è che è demograficamente e ideologicamente fuori sincrono rispetto al momentum democratico”, che come si sa è più radicale, è più giovane (anche se al momento il più acclamato è il settantasettenne Bernie Sanders), ed è femmina, se tosta, bella e del Bronx ancora meglio.

 

Oggi è meglio che non ti definisci “capitalista”, che scegli altre parole, sempre per esclusione: quello che non sei suona meglio di quel che sei. E questo è un po’ il problema di questa stagione politica: districarsi tra termini che sono sempre stati ragionevoli, quasi banali, e che ora non lo sono più. Peter Pomerantsev, scrittore e studioso della London School of Economics, ha spiegato questa trasformazione – le parole rubate, le ideologie per difetto – in un podcast per la Bbc di un mesetto fa che si intitola: “La guerra per la normalità”. Per normalità si intende il buon senso, la ragionevolezza, la moderazione, tutti concetti che hanno smesso di essere di moda, e che sono stati soppiantati da slogan ben più accattivanti, per quanto spesso impraticabili.

 

Qualche tempo fa, quando a lanciare un nuovo fronte moderato e ragionevole – non politico, intellettuale – era stato un gruppo di esperti conservatori, una delle animatrici, Anne Applebaum, mi aveva detto: “Il problema del centro, della moderazione, della ragionevolezza, è che non è sexy”. Hai voglia a denunciare le brutture dell’estremismo, i suoi pericoli, le sue contraddizioni, quella grandissima bufala che è “la difesa dell’interesse nazionale” che procede per dogmi e non per opportunità. Se come risposta hai soltanto: cerchiamo di essere ragionevoli, a correre verso gli estremi ci si schianta, un pasto caldo nel centro moderato lo troverete sempre, si può al massimo limitare i danni. Ma creare un seguito, un popolo pronto a combattere per la normalità è invero difficile.

 

“La moderazione non è un’ideologia, è un modo di vivere”, dice David Brooks, che vuole uscire dalla logica dei conflitti permanenti

Questa settimana David Brooks, saggista e columnist conservatore del New York Times, ha partecipato a un incontro organizzato dal Niskanen Center, un piccolo think tank nato cinque anni fa a Washington (William A. Niskanen era uno degli architetti della Reaganomics) da un gruppo di fuoriusciti dal centro studi libertario Cato Institute. Di recente, il Niskanen ha pubblicato uno studio intitolato: “Il centro può reggere: politiche per l’èra dell’estremismo”, che era un inno (ragionato) alla moderazione, all’equilibrio tra il mercato distruttore e la protezione sociale, contro lo scetticismo sul cambiamento climatico (senza estremismo ambientalista) e a favore dell’immigrazione controllata come variabile irrinunciabile per garantire prosperità. Il fondatore, Jerry Taylor, spiegando perché aveva deciso di costruire una nuova casa per le sue ricerche, aveva detto: “Le persone che hanno soltanto un’ideologia per spiegare ogni cosa hanno la tendenza a distorcere la realtà empirica con i propri paraocchi filosofici”.

 

Lunedì, al Niskanen, David Brooks ha citato “The Real American Dream” di Andrew Delbanco, un saggio uscito nel 1999, che delineava le diverse idee che avevano definito il sogno americano: Dio, la nazione e infine il “self”, l’individuo, la massimazione dell’io. Secondo Brooks ora siamo in una stagione successiva al “self”: il trumpismo offre l’idea della “tribù”, noi contro loro, laddove c’erano frontiere ora ci sono fortezze; la sinistra offre l’idea della “giustizia sociale”, contro l’oppressione della classe, della razza, delle discriminazioni di gender, la missione è sollevarsi contro il sistema oppressore. A unire le due offerte – “idee magnetiche”, le definisce Brooks, idee per le quali ti va di alzarti la mattina e combattere – c’è la nozione che la politica, la cultura, il mondo, la vita quotidiana siano storie di guerra. Di conflitti, di rivalse, di conquiste – soprattutto di illusioni: quando gli altri, i nemici, scompariranno avremo finalmente tutto quel che vogliamo, un “wonderful wall” al confine sud dell’America per esempio. E chi non si riconosce né nella lotta tribale né nella lotta di classe, che cosa fa? La proposta di Brooks per questa guerra per la normalità – lui non la chiamerebbe mai così, vuole levarci la parola “guerra” di bocca – è l’idea magnetica dell’amore, quel che ci unisce al posto di quel che ci divide, quel che siamo al posto di quel che non siamo. Un ribaltamento della prospettiva, e delle parole. Ci tiene insieme l’amore per i figli, allora cerchiamo di investire sulle famiglie e sull’istruzione; ci tiene insieme il lavoro, allora facciamo in modo di creare sussidi, salari minimi decenti, formazione abbordabile che resuscitino quella voglia pioniera di andare a cercarsi la propria strada lontano da casa (i dati sulla mobilità, simbolo del sogno americano, sono tutti al ribasso). Brooks cerca di individuare tutti i terreni in comune dei moderati, dei ragionevoli, e conclude: “La moderazione non è un’ideologia, è un modo di vivere” e anche questa, soprattutto questa, è un’idea “magnetica” ancor più se l’alternativa è la guerra permanente.

 

 

Al Niskanen Center, lunedì, c’era anche Tony Blair. Ora, citare l’ex premier britannico nel 2019 ha un effetto tremendo: sa di vecchio (e di altre brutture che non stiamo a elencare). Vogliamo idee per il futuro e siamo qui ancora a recuperare brandelli del pensiero blairiano? Il guaio è che di cantori della moderazione ce ne sono pochi, oggi, e quando si espongono finiscono come Beto: controcorrente e soli. Blair non corre questo pericolo, è orgogliosamente rappresentante di una stagione passata, non deve candidarsi ad alcuna carica, e nel suo discorso al Niskanen ha dato suggerimenti utili per chi cerca di vincere la battaglia per la normalità. Uno fra tutti (ce n’erano molti altri, il testo è recuperabile online e nei video all'interno di questo articolo c’è la registrazione di tutta la giornata dedicata a “Resuscitare la moderazione”): “Dobbiamo mobilitarci. Moderato non può voler dire passivo. Non significa essere aggressivi, ma determinati sì. E non possiamo continuare a chiedere scusa. Le politiche degli scorsi decenni hanno mostrato i loro limiti e i loro fallimenti, e ne abbiamo preso coscienza. Però non dimentichiamoci che ci sono anche stati dei successi che i nostri antenati non avrebbero mai neppure sognato. La prova? I paesi occidentali oggi sono tormentati dall’immigrazione, non dall’emigrazione”. Blair rivendica la bontà del suo modello, non potrebbe essere altrimenti, ma allo stesso tempo riconosce che quel che è andato storto va affrontato e corretto. Senza però continuare a cercare qualcuno cui dare la colpa: anche i partiti meno estremisti sono, soprattutto in Europa e in particolare in Italia, ancora a caccia di un responsabile, di un leader del passato da mostrificare ulteriormente, secondo quella logica illusoria che, trovato il colpevole, finalmente avremo quello che vogliamo (il dibattito dei candidati alla segreteria del Pd ha riassunto perfettamente questa dinamica: ci contorciamo sul passato, pensando che così spunteranno dal nulla proposte rigenerative).

 

 

Da tempo i moderati sono costretti a scegliere i termini per esclusione: quello che non siamo, non quello che siamo

I moderati hanno la tendenza a sentire la primavera ben prima che arrivi. John Thornill, che si occupa di Innovazione al Financial Times, ha scritto nei giorni scorsi che c’è una grandissima “creatività politica” da parte di movimenti liberali, che si basa sulla tecnologia – mobilitarsi oggi è un affare spesso tecnologico – e sulla moderazione. Josef Lentsch, che ha fondato in Austria un piccolo partito liberale chiamato Neos (entrato in Parlamento nel 2013), sostiene che “startup vibranti centriste sono la chance migliore per resuscitare le democrazie europee moribonde”. Anche se, questo in Italia è particolarmente evidente, le startup possono pure dirigersi ben lontano dal centro: buona parte dei partiti creati dal 2014 a oggi in Europa (circa un centinaio) è definibile populista.

 

I dati in questo senso non sono rassicuranti, per i combattenti per la normalità. La settimana scorsa, l’Economist ha pubblicato una ricerca titolata: “Il centro non può tenere”. Si parlava di Brexit – gli inglesi, poveri loro, non parlano d’altro – ma si sosteneva una tesi applicabile anche altrove: “L’elettorato polarizzato non ambisce a compromessi”. Dai grafici si vede che chi la pensava in un modo un paio di anni fa è rimasto uguale – il diritto a cambiare idea è sulla carta molto potente ma non lo esercita nessuno – e che le vie di mezzo, la moderazione, la normalità, non hanno quasi alcun posto. Mentre quel numero dell’Economist andava in edicola, però, il Regno Unito dell’immobilità ha trovato spazio per un nuovo gruppo politico votato alla moderazione e al buon senso, che si chiama The Independent Group (TIG, i suoi fondatori e simpatizzanti si chiamano TIGers, tigrotti). E’ un gruppo piccino, composto da pochi fuoriusciti del Labour e dei Tory, che è contrario alla Brexit e contrario agli estremismi (in particolare all’antisemitismo), ma ha avuto un effetto dirompente su un paese che gira a vuoto su se stesso da molto tempo.

 

Il partito inglese appena nato ha mostrato, per questa volta, che la ragionevolezza può essere contagiosa, addirittura popolare

E’ dai tempi della fondazione di En Marche! in Francia, nell’aprile del 2016, prima delle tempeste anglosassoni – Brexit e Trump – che non si parlava della forza di un nuovo movimento politico con un sorriso: quello che non siamo, quello che non vogliamo essere, è diventato, per una volta, per questa volta, un messaggio robusto e coraggioso. Ora naturalmente siamo in piena fase innamoramento: tigrotti ovunque, toni epici, sondaggi stellari, rumors su altre defezioni dai partiti tradizionali. Il TIG non ha un leader (il volto più conosciuto è quello dell’ex ministro ombra Chuka Umunna, che formalmente è soltanto “portavoce” perché per il momento il gruppo non vuole darsi una gerarchia) e non ha una struttura, se si dovesse mai organizzare un’altra elezione in breve tempo la speranza di sopravvivenza si ridurrebbe di molto. Però i TIGers hanno un’idea, una vocazione di ragionevolezza – fermiamoci, questa Brexit ci sta consumando e impoverendo – e per il semplice fatto di esistere hanno costretto il Labour e i Tory a riformulare le loro strategie e ad avvicinarsi a un compromesso. Siamo sempre nel campo del tatticisimo, la Brexit continua a essere zeppa di fantasie anche ora che finge maggiore consapevolezza, ma nella battaglia per la normalità questa è la prima vittoria segnata dai moderati. Ancora poco, pochissimo, per sentire la primavera, ma la normalità è anche saper rinunciare alle corazze, agli stendardi, alla retorica da guerriglia: buon senso, un paio di jeans e una maglietta, più sexy di così si muore.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi