Angela Merkel (foto LaPresse)

Dubbi made in Deutschland sul peso commerciale della Germania

Daniel Mosseri

L’Istituto Swp critica il “Germany First” e dall’università di Lipsia s’avanza la pazza idea di fare uscire Berlino dall’euro perché troppo forte

Berlino. “La Germania destabilizza le relazioni economiche internazionali” al punto che “la robusta retorica (protezionista) del presidente americano Donald Trump può apparire inappropriata nei toni ma è basata su un fondo di verità: la Germania ignora gli effetti della propria politica economica sulle altre economie, scatenando riflessi protezionisti”. Sorpresa: queste parole non sono state pronunciate da alcun politico italiano, europeo o americano stufo del perdurante squilibrio-monstre della bilancia commerciale tedesca ma si leggono nel rapporto di novembre dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza (Swp). Intitolato “Stubbornly Germany First”, lo studio non fa sconti alla politica commerciale di Berlino, che si accinge a chiudere il 2018 con un’eccedenza di 340 miliardi di euro, ben oltre il 7 per cento del pil tedesco. Il rapporto segnala come l’enorme export di capitali sia reso possibile “dall’import degli stessi da parte di altri paesi” il che significa che Berlino predica il basso indebitamento da parte dei membri dell’Eurozona salvo favorire l’esplosione dell’export di capitali propri. Con un doppio corollario politico. Primo: “Berlino è un peso per i propri partner”. Secondo: “Il costante respingimento delle critiche dall’estero indebolisce la reputazione della Germania quale attore responsabile degli affari internazionale”. Secondo la Swp esistono diverse leve economiche per riportare il surplus sotto controllo. Una di queste è un aumento generalizzato degli stipendi dei tedeschi. Una soluzione che in Germania piace a pochi.

 

Fra questi c’è Hartmut Elsenhans, professore di Relazioni internazionali all’Università di Lipsia ma già docente a Berlino, Montreal, Lisbona e Islamabad senza dimenticare la Columbia e Berkeley. Esperto di economia oltre che di relazioni fra stati, l’accademico è considerato una delle colonne del pensiero keynesiano a livello globale. Elsenhans non le manda a dire e sostiene, provocando, che è giunto il momento di “sbattere la Germania fuori dall’euro”. L’area della moneta comune “è malata” e la colpa è tutta della Germania con i suoi surplus commerciali a non finire. Per gli stati del sud del continente “la situazione sta diventando insostenibile”, dice il professore al Foglio. Come altri, Elsenhans non crede che la Germania esporti troppo: il punto è che importa poco, fiaccata com’è da una domanda debole. La cura che il professore prescrive è il superamento nel suo paese della politica di moderazione salariale.

 

Deludendo gli orfani di Wolfgang Schäuble e del rigore a tutti i costi, il governo Merkel IV ha promesso investimenti infrastrutturali per 45 miliardi spalmati su quattro anni. “La direzione è quella giusta ma si tratta di una somma ridicola rispetto all’eccedenza della bilancia commerciale tedesca”, taglia corto Elsenhans. Poiché anche l’armonizzazione e il rilancio dell’Eurozona proposte da Emmanuel Macron sono sparite dall’agenda dell’Ue, non resta che mettersi alle spalle decenni di salari troppo contenuti in Germania. Elsenhans osserva che i tedeschi si gongolano nel mito di una moderazione salariale che li renderebbe moralmente superiore ai pigri cittadini dell’Europa meridionali. Parimenti sbagliato è credere che le eccedenze delle esportazioni siano una virtù prussiana: “Sono invece un vizio e distruggono la cooperazione nell'economia mondiale da Bretton Woods in poi”.

 

Un vizio reso possibile dalla moneta comune. “I prezzi internazionali sono determinati dai tassi di cambio” ma l’esistenza di una moneta comune rende convenienti i prodotti tedeschi, che dovrebbero essere più cari, anche sui mercati depressi del sud d’Europa. Insomma, da troppi anni Berlino condurrebbe una politica di beggar-thy-neighbour che, combinando export a basso costo e importazioni ridotte all’osso, fa perdere fette di mercato alle imprese degli altri stati con evidenti ricadute sul fronte occupazionale prima e su quello della finanza pubblica poi – perché la disoccupazione pesa e molto sulle finanze nazionali.

 

Portafogli tedeschi più gonfi si tradurrebbero invece in una domanda interna più robusta, unico antidoto al surplus delle partite correnti. A sostenerlo, ricorda lo stesso professore, non è solo Hartmut Elsenhans cresciuto a pane e Keynes: “Anche il Fondo monetario internazionale ha sollecitato le imprese tedesche ad aumentare i salari reali”. Salari più consistenti, osserva ancora, non significano poi una minore competitività dei lavoratori tedeschi, specialmente non di quelli che producono beni e servizi a basso costo, non commerciabili all’estero. La Germania però non cambia linea e anche un rapporto pubblicato ieri dall’Istituto di Kiel per l’economia mondiale (IfW) su commissione del ministero tedesco delle Finanze difende le virtù del surplus tedesco. Intanto mezza eurozona sprofonda nel debito e nella disoccupazione. “Se la situazione non cambierà – conclude Elsenhaàs – non mi stupirei se un giorno un ministro degli Esteri del sud si rivolgesse alla Germania per dire: 'Sapete cosa c’è? Siete troppo bravi, non vi stiamo dietro. Meglio se andate avanti da soli’”.

Di più su questi argomenti: