Bronislaw Geremek (foto LaPresse)

Bronislaw Geremek, il Professor Europa

Francesco M. Cataluccio

Oggi è stata posta a Varsavia la targa che ricorda il grande storico del medioevo su cui la Polonia attuale non voleva la scritta “europeo”

Quando mi viene qualche dubbio sull’Europa, mi metto ad ascoltare la musica di Bach: funziona subito!”, amava dire Bronislaw Geremek, grande storico del medioevo, uno dei principali consiglieri di Solidarnosc e ministro degli Esteri della Polonia democratica.

  

Per ricordarlo, il comune di Varsavia, alcuni mesi fa, decise di collocare oggi, il 19 settembre, nel decimo anniversario della sua morte, una targa all’incrocio tra la via Królewska e il viale Marszalkowska. Si tratta di un doveroso riconoscimento a un grande personaggio della storia polacca contemporanea e anche un “risarcimento” per la violenta campagna di discredito, operata dalla destra populista polacca contro Walesa e i suoi consiglieri, culminata nell’accusa di una passata collaborazione con la polizia segreta (nel 2010, dopo la sua morte, furono pubblicati dei documenti, provenienti dagli archivi dell’Ipn, Istituto per la memoria nazionale, che facevano sospettare che Geremek, negli anni Sessanta, sarebbe stato un informatore della polizia; poi, nel febbraio 2011, il portale di destra Fronda e il giornale Nasz Dziennik dovettero pubblicare una netta smentita: non era vero niente e i documenti “erano stati trascritti male”).

La targa ha un testo scritto da Jolanta Kurska, direttrice della Fondazione Bronislaw Geremek: “In onore del prof. Bronislaw Geremek (1932-2008), patriota, europeo, storico, oppositore, coartefice della Polonia democratica, ministro degli Esteri (1997-2000), che fece aderire la Polonia alla Nato e operò per l’ingresso della Polonia nell’Unione europea, e fu parlamentare al Parlamento europeo (2004-2008)”.

 

I termini “europeo” (Europejczyk) e “coartefice della Polonia democratica” (wspóltwórca demokratycznej Polski) non sono piaciuti all’attuale governo polacco che, agli inizi di settembre, sempre tramite l’Istituto per la memoria nazionale, per bocca del direttore dell’Ufficio per la rimembranza della lotta e del martirio (BUWiM), Adam Siwek, ha ingiunto di cambiare il testo della targa. Alla fine di una lunga polemica il testo è rimasto nella forma originale, ma si teme che, dopo tutto questo inutile clamore, la targa potrà essere oggetto di atti vandalici.

 

Geremek era chiamato, da amici e avversari, “il Professore”: per l’immensa cultura, per l’aria tranquilla, sempre con la pipa in bocca, per la saggezza con la quale si muoveva negli anfratti turbolenti della politica. Fu un politico abile, un instancabile mediatore: davvero fu uno dei padri della Polonia democratica e della sua decisa collocazione in Europa e nell’Alleanza occidentale.

 

Geremek era anzitutto un grande storico del medioevo che, a un certo punto, avevo messo da parte gli studi e la vita accademica per buttarsi nella lotta politica per la democrazia e l’affermazione dei diritti dei lavoratori. Come Vaclav Havel rimase però sempre un intellettuale prestato alla politica, un oppositore che non esitava, per farsi comprendere meglio, a far riferimento alla lunga epoca medievale, della quale possedeva segreti e informazioni come pochi altri. 

 

A me piace ricordarlo nel periodo 1984-1986, durante la dittatura militare, quando, impossibilitato a insegnare, teneva una specie di seminari domestici per noi pochi temerari studenti nella sua casetta nella città vecchia di Varsavia, in via Piwna al 25 (appartamento 4), col portone piantonato spesso dai poliziotti e il soffitto imbottito di microfoni. Abitava là dal 1952 e aveva così potuto assistere alla ricostruzione della città distrutta: “Allora avevo un sentimento piuttosto negativo verso quest’idea di ricostruire la città esattamente com’era e dov’era. Mi pareva un’operazione artificiale e che ci fossero altre priorità. Ma oggi debbo riconoscere che avevo torto. La reintegrazione di quel paesaggio urbano è stata un atto di giustizia verso la memoria. Varsavia è una città unica in Europa: ha ricostruito il suo passato e, grazie a questa ricostruzione, il passato è presente”. A metà pomeriggio Geremek offriva il thè e la torta preparata dalla moglie e allora si attaccava a parlare di politica, scrivendo su foglietti i nomi e le frasi più compromettenti, per non farci sentire dagli ascoltatori della polizia. La barba e gli ampi gesti delle mani gli conferivano l’autorevolezza di un vero maestro. Nei nostri confronti era amico, confidente, ironico distruttore di certezze e pregiudizi. Spiegava il medioevo con passione contagiosa.

 

La storia personale di Geremek contiene tutti gli elementi delle tragedie e delle contraddizioni della Polonia del Novecento. All’inizio della sua vita, prima della guerra, si chiamava Benjamin Lewertów ed era figlio di genitori sionisti che sognavano di stabilirsi in Palestina (dove vissero due anni e nacque il primogenito Israel/Jerry). Tornati in miseria in Polonia si rifugiarono e poi quasi subito scapparono dall’Unione Sovietica nel 1939. I tedeschi li rinchiusero nel Ghetto di Varsavia: il padre morì ad Auschwitz e il fratello maggiore si salvò a stento dal campo Bergen-Belsen. Il piccolo Benjamin/Bronislaw e la madre, grazie a un amico del padre (il cattolico Stefan Geremek che la sposò per finta e, dopo la guerra, per davvero e adottò il figlio), riuscirono a uscire dal Ghetto prima della sua distruzione.

 

Dopo questa drammatica giovinezza, Geremek si iscrisse, nel 1950, alla facoltà di Storia dell’Università di Varsavia e poco dopo anche al Partito comunista (dal quale se ne andò nel 1968). Fu tra l’altro incaricato di accomapagnare/controllare, nel loro soggiorno di studio a Varsavia, due giovani studiosi francesi come Jacques Le Goff e Michel Foucault (dei quali divenne subito amico). Non aveva nessuna difficoltà ad ammettere che, nonostante la sua passione per la Storia moderna, si era accostato al Medioevo perché politicamente meno pericoloso, ma aggiungeva anche che aveva trovato subito dei grandi insegnanti, come lo storico del feudalesimo Witold Kula e sua moglie, la sociologa Nina Assorodobraj, “le cui ricerche, a metà strada tra sociologia e storia, sono state molto importanti per me, sia dal punto di vista metodologico sia concettuale”. Grazie a loro, Geremek individuò nella Francia un orizzonte intellettuale di riferimento. All’Ecole des Hautes études, con Braudel, si specializzò in Storia sociale e culturale del Medioevo e i suoi primi studi sfociarono nel volume Salariati e artigiani nella Parigi medievale (Sansoni, 1975). Studiando il “proletariato” medievale, Geremek giunse presto a interessarsi ai cosiddetti “marginali”: i vagabondi, gli zingari, i mendicanti, gli eretici. Il comportamento tenuto dal Potere nei loro confronti era per lui la cartina di tornasole della civiltà. Come sostenne ne “Il pauperismo nell’età preindustriale” (in: “Storia d’Italia, vol. V”, Einaudi 1973): “Il modificarsi del comportamento verso la povertà e i poveri ci consente di afferrare il lento, difficile, processo di formazione degli atteggiamenti mentali e della politica sociale moderna”.

 

La storia scritta da Geremek non è una storia di avvenimenti, ma un racconto antropologico-culturale, una riflessione sulla mentalità: interpretava i fatti economici come espressione della cultura. Dopo il fondamentale libro “La pietà e la forca: storia della miseria e della carità in Europa” (Laterza, 1986), i suoi studi sfociarono in un lavoro rivoluzionario dal punto di vista metodologico, definito da Le Goff “uno dei più grandi libri mai scritti sul medioevo”: “La stirpe di Caino. L’immagine dei vagabondi e dei poveri nelle letterature europee dal XV al XVII secolo”. Il dattiloscritto, respinto dalla censura polacca non per i contenuti ma per ostilità politica verso l’autore, lo trafugai, infilato sotto la camicia come una panciera, e lo pubblicai in anteprima in italiano da il Saggiatore, nel 1988.

 

Negli anni Ottanta Geremek fu sempre più assorbito dall’impegno politico per garantire alla Polonia una prudente transizione alla democrazia che evitasse tragici spargimenti di sangue. Quando, nell’estate del 1980, scoppiarono nella costa baltica gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche, si recò a Danzica, assieme all’amico intellettuale cattolico Tadeusz Mazowiecki (che diverrà dieci anni dopo il primo ministro della Polonia postcomunista) e all’altro storico del medioevo Karol Modzelewski, per offrire a Solidarnoscś l’appoggio degli intellettuali e i loro consigli. Nei mesi successivi il loro ruolo e la loro influenza persero di forza di fronte alle spinte più radicali degli operai e della società. Il colpo di stato militare del 12 dicembre 1981 colse Geremek ancora a Danzica dove stava tentando una ormai impossibile mediazione. Tentò di tornare fortunosamente a Varsavia nascosto nel bagagliaio dell’auto del corrispondente dell’Ansa Duccio Bigazzi, ma furono entrambi fermati e arrestati. Geremek fu internato per alcuni mesi e cacciato dall’Università.

 

Tornato liberò riprese a tessere un difficile lavoro per riallacciare i fili di un possibile dialogo tra Solidarnoscś (ormai divenuto un “sindacato della società civile”) e le frange più “aperte” del Partito, con la mediazione decisiva della Chiesa e l’appoggio dell’occidente. Il risultato fu la cosiddetta “Tavola rotonda” (l’incontro tra dirigenti del Partito e dello stato con rappresentati del sindacato indipendente e intellettuali, che si tenne a Varsavia dal 6 febbraio al 4 aprile 1989), della quale Geremek fu uno degli organizzatori e protagonisti, che pose le basi per la fine della dittatura del Partito comunista e la nascita della democrazia.

 

Dopo il 1989 lo storico del medioevo (che, nel frattempo, aveva anche preso a insegnare, in un perfetto francese, alla Sorbona) fu impegnato in ruoli politici decisivi: prima come ministro degli Esteri e poi deputato al Parlamento europeo.
In una delle sue raccolte di saggi storici, “Le radici comuni dell’Europa” (il Saggiatore, 1991) Geremek scriveva: “Nel Medioevo il termine Europa veniva usato per indicare un luogo geografico. Soltanto verso la fine di quel periodo divenne un concetto dal contenuto storico culturale, sempre più largamente usato nelle opere storiche e filosofiche, che soppiantava il termine christianitas. ‘Europa’ non era più soltanto sinonimo di ‘cristianità’ diventava qualcosa di più specifico”. A questa “specificità” dell’Europa, ai rapporti tra essa e la Polonia, all’idea di Europa, Geremek avrebbe voluto dedicare i suoi studi, se la politica non lo avesse assorbito quasi completamente.

 

Geremek ha insegnato all’Europa a capire e rispettare gli emarginati, i barboni, i vagabondi. Il comportamento tenuto dal Potere nei loro confronti era ed è la cartina di tornasole della civiltà. Nella sua ultima lezione, ricordava un fatto che farebbero bene a non dimenticare gli odierni amministratori della città di Firenze: “Secondo il cronista Giovanni Villani, verso il 1330, vi sono a Firenze 17 mila persone che vivono di elemosina, alle quali vanno aggiunte quattromila persone tra poveri, ricoverati negli ospedali, detenuti, frati mendicanti (in tutto il 20 per cento della popolazione)”.

 

E’ un fatto tragicomico che oggi in Polonia si sia tentato di negare a Geremek il diritto di essere chiamato “europeo”. Credeva con molta convinzione nell’Europa: è stato forse l’intellettuale polacco più europeo. Geremek aveva sempre sognato una Polonia “governata da persone sagge e buone”, come quella immaginata del poeta ebreo polacco Julian Tuwim, nella raccolta “Fiori polacchi” (1949), dove non ci fosse antisemitismo né alcuna ostilità verso gli altri popoli. Una Polonia europea, che per sempre si collocasse nel campo delle nazioni libere e democratiche, del progresso civile; una Polonia dove non si manifestasse più l’orrore delle guerre e dei violenti scontri politici, e l’oppressione del totalitarismo.

 

Geremek si diceva orgoglioso che Solidarnosc, anche grazie al suo impegno e al suo sacrificio, avesse tolto “la prima pietra del Muro di Berlino” e che Danzica fosse diventata il luogo simbolico della memoria collettiva dell’Europa.

 

Prima di morire in un incidente stradale, all’età di 76 anni, aveva dedicato tutte le sue energie a progettare un’Europa come “sistema educativo”: scambi generalizzati di studenti con borse di studio Erasmus e un’Università di tipo nuovo a Strasburgo per tutte le età e culture. Si diceva convinto infatti che solo un grande scambio continuo di persone, saperi ed esperienze avrebbe permesso di abbattere le barriere culturali e le diffidenze storiche che impediscono la nascita di un’Europa veramente unita e con un basso tasso di conflittualità interna. In un articolo intitolato “Un confine aperto” (1990) scrisse: “L’Europa non è un concetto geografico ma una nozione politica, di civiltà (…). Identificare l’Europa con l’occidente non è bene per l’Europa, non è bene per il mondo. Sono convinto che rimanga attuale il modo di pensare espresso una volta dal generale De Gaulle, secondo il quale l’Europa è un insieme di patrie, e la ricchezza dei patrimoni nazionali, delle organizzazioni nazionali, non è affatto in contrasto con il concetto di comunità europea”.

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