Le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia nell'agosto del 1968 (Foto LaPresse)

Il '68 a est che rinunciò all'ideologia e pose al centro l'uomo

Ubaldo Casotto

A Praga il dramma dell’io davanti alla menzogna del regime diventa tragedia. La mostra sull'invasione russa al Meeting di Rimini 

Rimini. Occupazione. È questa la prima parola che accomuna il ’68 al di qua e al di là della Cortina di ferro.

 

Nel febbraio 1967 un gruppo di studenti occupa il Palazzo della Sapienza di Pisa. Un altro Palazzo Campana a Torino. Il 17 maggio è la volta dell’Università degli studi di Milano. Il 17 novembre in 160 occupano la Cattolica di Milano.

 

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, 600 mila soldati delle forze del Patto di Varsavia, assistiti da almeno 5 mila carri armati, dilagano in Cecoslovacchia per reprimere la Primavera di Praga, il tentativo pacifico e riformista guidato da Alexander Dubčcek di dare un volto umano al socialismo reale.

 

Il Meeting di Rimini ha dedicato una mostra al ’68, significativamente intitolata “Vogliamo tutto” e coerentemente con la sua decennale attenzione e sensibilità per il mondo d’oltrecortina, non ha dimenticato il ’68 nei paesi dell’est europeo, dedicandovi, oltre che una sezione della mostra, un incontro con Francesco Braschi, presidente di Russia cristiana, Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa alla Cattolica, e Annalia Guglielmi, ricercatrice ed esperta del dissenso nell’oriente europeo.

 

“Vogliamo tutto” è l’altro dato in comune tra le due contestazioni giovanili. La mostra lo segnala con accento positivo, perché tale era nella sua origine il desiderio di autenticità e la ribellione al formalismo borghese nei giovani parigini che scandivano, appunto: “Che cosa vogliamo? Vogliamo tutto!”. Identico era il desiderio di totalità di Vladimir Pores, giovane credente condannato a cinque anni di reclusione in Unione sovietica, il quale, quando alla fine del processo il giudice gli chiede il perché della sua rivolta visto che non è mai stato perseguitato per motivi religiosi, risponde: “Sì, sul lavoro mi hanno trattato bene […]. In prigione mi hanno concesso un libro di preghiere e la Bibbia. Grazie per tutto questo. Ma è poco; noi vogliamo tutto il mondo”.

  

Le analogie finiscono qui. E iniziano le differenze.

 

La prima è il rifiuto della violenza. A Praga quel 21 agosto di cinquant’anni fa se ne è parlato. E si è scelto invece di disorientare i soldati sovietici togliendo nella notte ogni indicazione topografica, ogni lapide che recasse il nome di una via, ogni numero civico sui portoni delle case, ogni segnale stradale. Si narra di tank sovietici che vagarono nelle campagne per giorni. Come dice Annalia Guglielmi: “All’invasione si risponde con la disobbedienza civile e non violenta. La non violenza è stata una scelta. Non erano mancati gli appelli alla resistenza armata, ma la principale forma di resistenza sarà passiva, il che non impedisce che si contino molti morti, feriti e migliaia di arresti. Forse è proprio la scelta non violenta ad approfondire il solco tra il ’68 occidentale e quello praghese”.

 

Ma non c’è solo il no alla violenza, c’è anche il rifiuto dell’ideologia. A Praga come a Mosca. Lo racconta con il taglio del narratore più che del freddo analista Adriano Dell’Asta, che ricorda i sette o otto (“si tratta di mettersi d’accordo sulla presenza di un neonato”) che il 25 agosto 1968, quattro giorni dopo il blitz su Praga, “restituirono la dignità perduta a un paese macchiato dall’infamia dell’invasione” manifestando per pochi minuti sulla Piazza Rossa con due cartelli, uno in ceco “Viva la Cecoslovacchia libera e indipendente”, e uno in russo, “Per la vostra e la nostra libertà”. Libertà che persero immediatamente con l’arresto e poi con anni di lager, di confino o con la segregazione in manicomio.

 

Sorte simile ai ragazzi di piazza Majakovskij (“perché lì, dieci anni prima – spiega Dell’Asta – inizia il ’68 sovietico”) che si riunivano per leggere poesie in pubblico e che furono condannati chi a venticinque anni di lager e chi, tre, a morte. Questi ragazzi, di fronte al divieto delle autorità – “le poesie erano tristi, ma nel socialismo realizzato non si poteva essere tristi” – iniziarono a pubblicarle clandestinamente. Nasce così il fenomeno del dissenso e del samizdat che avrà nella pubblicazione di Aleksandr Solžzenicyn il suo apice.

Solo desiderio di bellezza

Niente ideologia, solo desiderio di bellezza. “Chi te l’ha fatto fare?”, ha chiesto un ricercatore italiano a Susanna, una delle sopravvissute. “Eravamo amici, ci piaceva la poesia e la bellezza, come facevamo a non condividerla?”, la risposta disarmante. “Niente violenza, niente ideologia, solo un’esperienza e un’amicizia, un dono da condividere” commenta Dell’Asta. Se i giovani contestatori occidentali posero subito la loro speranza nelle mani di un’ideologia e di una prassi politica, all’est si affidarono solo alla possibilità di “non vivere nella menzogna” come dissero più tardi sia Solžzenicyn (“l’infamia dei metodi si perpetua moltiplicandosi nell’infamia dei risultati. Il risultato infame è la menzogna. Dobbiamo rifiutare di partecipare personalmente alla menzogna”) sia Václav Havel, commediografo cecoslovacco passato dalle galere alla presidenza del paese, nel suo celebre “Il potere dei senza potere”.

 

Il rifiuto della violenza e dell’ideologia – “che non è un contenuto, ma una forma di pensiero che distrugge ogni contenuto” – e la lotta per la verità portano in primo piano un’altra differenza tra i due ’68. Se all’ovest il “Vogliamo tutto” si affida al cambiamento delle strutture che ha come protagonisti la massa, il gruppo e il partito, all’est il soggetto della liberazione è l’io. Dell’Asta legge una pagina di “Arcipelago gulag” che è più chiara di ogni sillogismo possibile: “Chi è stato a fare questo? Da dove viene questa razza di lupi nel nostro popolo? E’ di altre radici. E’ di altro sangue. No, del nostro. Se la mia vita avesse preso una piega diversa non sarei diventato boia anch’io?” Eppure qualcuno non lo è diventato. Solžzenicyn pone la sfida al singolo: che cosa faccio io? Il ’68 all’est è stato la riscoperta della responsabilità personale.

 

A Praga il dramma dell’io davanti alla menzogna e alla violenza del regime diventa tragedia. La riviviamo con le parole di Annalia Guglielmi: “Nel gennaio 1969 un giovane studente, Jan Palach, poi imitato da altri sette, si dà alle fiamme in piazza Venceslao. In un documento di Charta ’77 del febbraio 1989 leggiamo: ‘Jan Palach morì e noi tutti per un attimo ammutolimmo. […] Cerchiamo di immaginarci l’attimo in cui ha preso il coraggio per compiere quel gesto terribile. […] Fermiamoci un attimo a fissare quella torcia e ci accorgeremo che si tratta di qualcosa che non si può buttare al vento né ieri, né oggi, né domani. E’ qualcosa che rende l’uomo uomo proprio perché lo supera”.

 

Anche in Polonia – racconta sempre la Guglielmi – la scintilla è la libertà di espressione. “All’inizio del 1968 andò in scena in un teatro di Varsavia il dramma “Gli Avidi” Adam Mickiewicz, poeta dell’800. Il pubblico applaudiva i passaggi in cui si parlava della sottomissione della Polonia alla Russia zarista. Le autorità imposero al teatro di interrompere le rappresentazioni, e questo provocò la protesta degli studenti sino alla manifestazione dell’8 marzo repressa brutalmente dalla milicja con molti arresti”. La protesta dilagò in tutta la Polonia e durò un mese, poi ci pensò nuovamente la milicja. Le autorità e la stampa dissero che i disordini erano opera di “sionisti”. I sospetti di sionismo persero il lavoro, le case e spesso la cittadinanza polacca e dovettero lasciare il paese. Tra il 1968 e il 1972 furono spinti a lasciare la Polonia almeno 20 mila dei 30 mila ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto. Il primate della chiesa polacca, il cardinal Stefan Wyszyńnski condannò la campagna antisemita, difese gli studenti e aprì le chiese di Varsavia perché potessero rifugiarvisi. 

La strada aperta alla libertà

Guglielmi cita Adam Michnik, uno dei più importanti protagonisti del ’68 polacco e non solo, che in un articolo sul Guardian del 2008 scrive: “Forse sono stati ingenui nell’aspettarsi dei cambiamenti, ma la Primavera di Praga e il movimento studentesco in Polonia hanno aperto la strada alla libertà […]. Nel decimo anniversario dell’invasione di Praga, Václav Havel, Jacek Kuroń e io, insieme ad altri dissidenti, ci incontrammo sul confine ceco-polacco. C’è una fotografia di quell’occasione: futuri presidenti, ministri e parlamentari che a quel tempo erano perseguitati dalla polizia come criminali comuni”. E’ nel ’68, a seguito dell’esperienza del carcere, che questi intellettuali “capiscono che il sistema di stampo marxista è morto, nasce così una riflessione che, tra l’altro, li porterà ad allacciare rapporti con gli intellettuali cattolici, che a loro volta erano protetti dal cardinale di Cracovia Karol Wojtyla”.

 

La “liberazione” arriverà vent’anni dopo. Ma non fu la “fine della storia”. E loro lo capirono subito. Con lucidità che oggi impressiona Bronislaw Geremek, uno dei leader di Solidarnoscść poi ministro degli Esteri polacco, nel 1990, in un’atmosfera di libertà appena riconquistata, avverte di tre pericoli. Li elenca nel suo intervento padre Braschi: “Il populismo e le sue illusioni ugualitarie, arma pericolosa in mani di demagoghi. La tentazione di instaurare governi dalla mano forte. E il nazionalismo, possibile frutto indesiderato del richiamo al sentimento nazionale che sotto il regime era la forma più semplice di resistenza”.

 

Ma c’è un’altra attualissima lezione che ci viene dal ’68 dell’Europa dell’est. A sorpresa padre Braschi cita il Concilio Vaticano II, e una data: 20 settembre 1965. In San Pietro si discute sulla Dignitatis Humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa. “Arrivano due testi – ricorda Braschi – uno letto e uno scritto. Gli autori sono il cardinale Josef Beran di Praga e Stefan Wyszynński di Varsavia”. Con sorpresa di molti il loro appoggio al testo sulla libertà religiosa è totale. Braschi legge passi del documento di Beran in cui il cardinale ceco parla delle “tentazioni di menzogna, ipocrisia e altri vizi morali che corrompono un popolo privo della libertà di coscienza”, interpreta la persecuzione in atto dicendo che “sembra che la chiesa cecoslovacca sia espiando dolorosamente i peccati commessi in passato contro la libertà di coscienza (cita Jan Hus), e conclude: “La storia ci ammonisce di proporre in questo Concilio senza alcuna restrizione il principio di libertà di coscienza”.

 

Wyszynński, non certo noto per il suo relativismo, scrive che “dal fatto dell’unione religiosa intima con la divinità si può dedurre che ogni religione è in un certo senso vera”. Certo, “ciò non esclude che il Concilio debba affermare che l’unica religione a pieno titolo vera sia quella che Cristo ha affidato alla sua chiesa”. Ma, aggiunge, “la via degli uomini dei nostri tempi è la stessa del tempo degli apostoli, quella del convincimento. […] Le diverse forme religiose vanno trattato con le parole di Cristo: ‘Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile’ […] La libertà di errare in materia di fede religiosa è da conservare perché ha la sua radice nella natura umana”. Questo, per il cardinale polacco, “non significa equiparare il falso con il vero”, ma “è necessario che l’uomo agisca secondo la propria coscienza anche se erronea”.

 

Insomma, conclude Braschi, dal ’68 dell’est ci arriva anche “una risposta all’ideologia che valorizza la dignità dell’essere umano. Le chiese perseguitate ci hanno proposto questa capacità di approfondire la fede e di farla riconoscere come principio ispiratore di un reale umanesimo, reso poi visibile nel dissenso. E’ la differenza tra una pretesa di cambiamento affidata alla politica e la capacità di mettere al centro la dignità dell’uomo”.

 

Ex oriente salus. Ancora una volta.