Un gruppo delle Forze democratiche siriane, la milizia curdo-araba sponsorizzata dall’America che ora sta passando dalla parte del governo di Assad (foto Reuters)

Fine dei giochi in Siria

Daniele Raineri

I curdi negoziano la sottomissione al governo di Assad. Fra dieci giorni Trump potrebbe offrire il ritiro americano a Putin, ma il grande accordo ha punti oscuri

Da molti mesi circolano rumor su squadre di assassini che operano nell’est della Siria, in quella zona tra le città di Raqqa e Deir Ezzor che nominalmente è sotto il controllo delle milizie curde delle Forze siriane democratiche e che vive in un dopoguerra pieno di ansie. Le uccisioni prendono di mira attivisti civili che erano impegnati nella ricostruzione della società e ufficiali curdi e di solito sono imputate allo Stato islamico, il gruppo terroristico che fino all’anno scorso controllava tutte quel territorio e che poi si è ritirato a causa dell’avanzata dei curdi e dei bombardamenti americani. Il sospetto è che non si tratti di terroristi, ma di killer al servizio del governo del presidente Bashar el Assad che in questo modo prepara il terreno all’operazione politica più ambiziosa – finora – tentata da Damasco: riprendere il pezzo di Siria a est dell’Eufrate dalle mani dei curdi senza combattere. Come se le uccisioni facessero parte di una “bonifica preventiva” per togliere di mezzo e silenziare gli elementi che potrebbero opporre più resistenza. Non c’è modo di confermare questi rumor e in quell’angolo di Levante le voci incontrollate purtroppo abbondano: per esempio in questi giorni compie quattro settimane la diceria che vuole cinquanta truppe italiane a scorrazzare proprio in quella zona a bordo di blindati che esibiscono il tricolore e a prendere parte assieme alle forze speciali americane e francesi alla campagna contro le ultime bande dello Stato islamico. Un generale della Difesa ha smentito il rumor al Foglio e c’è da dire che in tutto questo tempo qualcuno avrebbe di sicuro scattato foto agli italiani e le avrebbe messe su internet. E invece non è successo nulla. Così è difficile dire che i killer facciano parte di un piano del governo per riprendersi i territori curdi, ma il clima nell’aria è quello. Le bandiere della Siria baathista (il partito unico del presidente Assad) cominciano a spuntare di nuovo qui e là, dopo cinque anni di assenza. Gli americani, i grandi sponsor che possono incenerire qualsiasi nemico locale con un paio di bombe a guida satellitare, stanno per abbandonare il campo – così si dice – e tutti cominciano a fare i conti con quello che verrà dopo.

 

Gli americani avevano promesso ai curdi: non dovete temere niente, vi proteggiamo noi. Ma con Trump le cose sono cambiate

In questo momento la Siria è divisa in tre larghe zone d’influenza. Il governo del presidente Bashar el Assad controlla le grandi città più popolose e importanti e la costa che affaccia sul Mediterraneo, grazie ai due sponsor, l’Iran e la Russia. La Turchia controlla il nord tra Idlib e Afrin grazie all’influenza che esercita su un assortimento di gruppi ribelli siriani che prendono ordini dall’esercito di Ankara – e che però devono condividere il territorio con alcuni gruppi jihadisti che hanno la stessa ideologia di al Qaida (quando non fanno parte di al Qaida). E’ una miscela instabile, prima o poi la situazione dovrà essere risolta. A est invece ci sono i curdi delle Forze siriane democratiche, che sono indicati anche con la sigla inglese Sdf, sono legati al Pkk – il partito comunista curdo – e sono sponsorizzati dall’America.

 

E pensare che il messaggio dei generali americani ai curdi finora era stato chiaro e rassicurante: non temete né la Turchia né Assad, perché siete sotto la nostra ala. A febbraio quando centinaia di uomini delle milizie assadiste e i mercenari russi della compagnia Wagner avevano tentato di conquistare un pozzo di petrolio vicino Deir Ezzor, di cui poi volevano incassare i proventi, l’attacco si era trasformato in un’ecatombe: erano arrivati gli aerei, gli elicotteri e i droni americani e avevano ucciso “centinaia” di aggressori (fonti del Pentagono) per evitare che raggiungessero un comando curdo dove si trovavano anche alcuni americani. Le potenze occidentali continuano a proteggere la presenza delle loro forze speciali con raid aerei discreti ma efficaci. Il 21 giugno gli inglesi hanno bombardato gli assadisti per tenerli distanti dalla base di al Tanf, sul confine con la Giordania, dove opera un gruppo del Sas, lo Special Air Service inglese. In questi giorni un paio di senatori americani stanno visitando Raqqa, in camicia e cappellino da baseball calcato sulla testa, per convincere gli ufficiali curdi che l’America starà ancora al loro fianco, non se ne vuole andare dopo tutti questi combattimenti contro lo Stato islamico, non c’è nulla da temere. Chissà se riescono a essere convincenti.

 

L’aria che regna è da fine imminente dei giochi. Tutti sono persuasi che all’incontro di Helsinki, tra dieci giorni, il presidente americano Trump consegnerà le chiavi della Siria al presidente russo Vladimir Putin e metterà fine alla presenza americana nell’est del paese, duemila uomini e un pugno di basi militari (almeno dieci, ma forse sono più di venti: il Pentagono non conferma per non dare vantaggi ai nemici) che hanno funzionato come una spina dorsale per tutta la campagna delle milizie curde contro lo Stato islamico, durata quattro anni e ancora in corso.

 

Se succedesse davvero, sarebbe l’ennesimo colpo di genio opportunista del governo siriano, che ha lasciato che i curdi facessero il grosso della campagna contro lo Stato islamico – incluse alcune battaglie urbane violentissime come la liberazione di Raqqa – e che consumassero i loro uomini, e ora punta a riprendersi i territori già bonificati dalla presenza dei terroristi. Un calcolo di esperti dice che curdi e americani hanno liberato il 64 per cento delle città e dei villaggi che erano nelle mani dei fanatici (attenzione, questa percentuale del 64 per cento non si riferisce al territorio dello Stato islamico in Siria, ma a tutto il territorio dello Stato islamico). I curdi siriani morti in combattimento sono più di seimila. Poi, pensavano intanto a Damasco, in qualche modo faremo – e ci riprenderemo quello che è nostro. E’ arrivato il momento del poi.

 

La questione più importante tra Trump e Putin sarà la presenza dell’Iran in Siria. Israele si sente minacciato al confine

Le città più importanti nell’est curdo del paese sono Hasaka, Qamishli e Raqqa. Sabato gli abitanti di Qamishli e Hasaka hanno notato che i curdi stavano togliendo i ritratti onnipresenti di Abdullah “Apo” Ocalan, il leader carismatico del Partito dei curdi comunisti imprigionato in Turchia. La scusa ufficiale è che la pulizia serve “a fare più belle le città”, ma è difficile da credere. Quella è la Siria, dove chiunque comanda come prima cosa mette dappertutto i segni del suo potere in modo che la gente abbia ben chiaro chi deve rispettare. Gli assadisti innalzano gigantografie del rais, quelli dello Stato islamico fanno sventolare le bandiere nere con il sigillo del profeta Maometto e i curdi del Pkk / Ypg mettono ovunque la faccia baffuta di Apo. Per questo motivo furono anche criticati perché nei giorni della liberazione di Raqqa, quando sarebbe stato necessario non spaventare troppo la popolazione araba provata dalla battaglia e intimorita dai curdi, alzarono subito un ritratto enorme di Ocalan nella piazza principale della città, dove lo Stato islamico decapitava i condannati. Come a dire: cacciati quelli, ora comandiamo noi. La scomparsa di Apo dalle piazze è il segnale che il passaggio di consegne dai curdi al governo di Assad potrebbe essere vicino.

 

Secondo Riam Dalati, un arabo che fa il producer sul posto per i reportage della rete inglese Bbc in Siria, è da aprile che i curdi delle Sdf trattano con discrezione un possibile accordo di riconciliazione con Damasco. A giugno i negoziati hanno accelerato. L’8, il 14 e il 20 giugno alcuni funzionari siriani sono arrivati via elicottero nella Zona di sicurezza di Hasaka, che è un aggregato di compound ancora in mano al regime in mezzo alla città (pensate a una Zona verde, come a Baghdad durante la guerra). In un’altra occasione la delegazione di funzionari, che erano della Difesa, dei servizi segreti e anche civili, hanno fatto un giro di Raqqa a bordo di Suv con i finestrini oscurati per controllare lo stato degli edifici governativi dopo i bombardamenti dell’anno scorso per cacciare lo Stato islamico. La loro idea è creare una Zona di sicurezza anche lì, come esiste già a Hasaka, attorno ai resti del palazzo del governatore. Un giorno quell’edificio in rovina sarà visitato come uno dei posti più iconici di questa guerra civile: da quelle finestre il presidente Assad si affacciò in una delle sue ultime visite lontano dalla capitale, finché ancora poteva muoversi per il paese all’inizio del conflitto, celebrato da una folla festante. Raqqa divenne il primo capoluogo a dichiararsi liberato dal controllo del regime, nel 2013. Nel 2014 però la città era ormai passata sotto il controllo dello Stato islamico e quel palazzo era ormai diventato un comando del gruppo.

 

I ritratti di Ocalan, storico leader curdo, stanno sparendo dalle città più importanti dell’est del paese controllato dai curdi

Anche a Qamishli l’esercito siriano sta rimettendo a posto la Zona di sicurezza. E’ chiaro che il ritorno del regime in quelle aree passerà per queste guarnigioni piazzate nel centro delle città. Si parla molto dell’accordo tra curdi e governo, di cui circolano già le clausole, anche se non si sa quando e se entrerà in vigore. I curdi s’impegnano a eliminare ogni simbolo che richiami Ocalan – come stanno già facendo – le loro forze militari saranno integrate gradualmente nell’esercito governativo, i posti di confine e i pozzi di petrolio saranno controllati dall’esercito governativo. Il tempo che i curdi hanno passato nelle milizie Sdf sarà conteggiato come servizio militare – una clausola molto importante in un paese dove il governo dà la caccia ai disertori e il servizio di leva può durare anni, a seconda del bisogno. Inoltre l’esercito governativo potrà aprire centri di reclutamento nelle città curde, specie per reclutare gli arabi che non vogliono arruolarsi nelle milizie curde. Il ministro del Petrolio dovrà essere un curdo. E la lingua curda diventerà la seconda lingua ufficiale della Siria dopo l’arabo, una clausola molto significativa perché prima della guerra civile il curdo non era riconosciuto e i curdi spesso erano trattati come cittadini di seconda classe e per esempio non riuscivano ad avere documenti ufficiali per uscire dal paese. Insomma, i negoziati tentano di arrivare a un grande compromesso fra Assad, che ha promesso che avrebbe ripreso il controllo di tutto il paese “shibr shibr”, che vuol dire “pollice per pollice”, e i curdi filo Pkk che sognavano un Rojava – il Kurdistan siriano – autonomo se non proprio indipendente

 

Questa accelerazione, come si diceva, è dovuta alla sensazione che gli americani siano sul punto di lasciare le loro posizioni. Tra dieci giorni a Helsinki il presidente americano Donald Trump incontra il presidente russo Vladimir Putin e sebbene non ci sia un programma già ben definito è molto probabile che i due prenderanno decisioni a proposito della guerra civile in Siria. Trump vuole ritirare i circa duemila soldati americani che in questo momento sono nel nord e nell’est della Siria per dare una mano ai curdi. In cambio, vuole da Putin che faccia pressione su Assad e sul governo iraniano affinché la presenza militare iraniana in Siria non sia più così minacciosa per Israele come adesso. Si parla a questo proposito di alcune fasce di rispetto – prima si diceva quaranta, adesso ottanta chilometri di distanza dal confine sul Golan con Israele – in cui gli iraniani e le milizie a loro alleate non dovrebbero più entrare. Questo patto – qui descritto in modo molto schematico – ha centinaia di corollari, per esempio la Russia vorrebbe che una forza militare di interposizione fatta di soldati della Giordania occupasse il confine a sud, in modo da impedire il contatto diretto tra Israele e assadisti, e ci sono altri accordi per trasformare in fretta i gruppi ribelli in milizie alleate con il governo ed evitare così di protrarre ancora a lungo la guerra.

 

Si parla molto di un accordo con il governo di Damasco, prevede la gestione di pozzi di petrolio e confini, e il curdo lingua ufficiale

L’accordo è affascinante perché suona reale ma per alcuni aspetti non ha senso. Israele ha già detto che non vuole militari iraniani e basi iraniane in tutto il territorio siriano, perché per la tecnologia militare moderna ottanta chilometri non sono nulla e comunque gli iraniani potrebbero agire non direttamente, ma facendo lavorare l’assortimento di bande militari che controllano – come hanno sempre fatto finora. E per sottolineare il concetto, continua con raid aerei devastanti contro le basi e le installazioni in Siria del gruppo libanese Hezbollah e dell’Iran – una settimana fa i jet israeliani avrebbero colpito un aereo cargo sulla pista dell’aeroporto internazionale di Damasco.

 

Da parte russa, promettere che adesso l’Iran uscirà dalla Siria dopo tutti questi anni di perdite e di investimenti in denaro che hanno fatto infuriare l’opinione pubblica iraniana e che lascerà il campo proprio alla vigilia della vittoria sembra difficile anche per un presidente assertivo come Vladimir Putin. E infatti ieri il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che se quella è l’aspettativa di Trump allora non è realistica. Inoltre l’America, sebbene a Trump piaccia l’idea di ritirare i soldati dalla Siria per rispettare il suo desiderio di isolamento dal mondo, perderebbe una posizione molto strategica. Tutte le operazioni per dare la caccia ai leader dello Stato islamico partono dai suoi aeroporti militari nel nord della Siria. Molte missioni di sorveglianza e intelligence per tenere d’occhio gli iraniani sono anche quelle centrate in Siria. I generali del Pentagono e gli ex generali passati alla politica, che dentro l’Amministrazione Trump funzionano come un contropotere all’insegna della concretezza, non sono molto d’accordo con la ritirata totale. E’ l’Amministrazione più anti iraniana della storia, perché dovrebbe mollare le sue guarnigioni che affacciano sul territorio nemico?

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)