Yuri Gagarin in una foto del 1961 (foto LaPresse)

Il volo infranto

Micol Flammini

Era stato il primo uomo nello spazio, morì in un incidente aereo. Mosca dopo cinquant’anni apre gli archivi: ecco il vero Gagarin, eroe sovietico

E’ una storia di minuti, di secondi di perfezione, di razionalità precisa e di scienza un po’ imperfetta. La notte prima di essere lanciato nello spazio, Yuri Gagarin non dormì. Aspettava il giorno, assaporava le ore, cercava di spingere più in là il momento

La notte prima del lancio, il cosmonauta non dormì. Era ammesso tutto, anche il cedimento, e la sua riserva era già pronta

in cui sarebbe dovuto salire sulla Lastochka, la navicella spaziale progettata dai sovietici per mandare un uomo nello spazio durante la missione Vostok 1. Era ammesso tutto, anche il cedimento, Gagarin avrebbe potuto rinunciare all’ultimo e la sua riserva, alla quale invece dire no non era più permesso, era già pronta. La Russia voleva lo spazio e aveva fretta. Il cosmonauta di riserva quella notte era accanto a lui, si chiamava German Titov e non dormiva. Insonne anche lui, pensava, temeva che Gagarin avrebbe potuto rinunciare all’ultimo, o forse lo sperava. Quel magma di ansie, aspirazioni, umane invidie e incomprensione dell’incomprensibile scuoteva la notte che avrebbe portato l’umanità intera a scoprire che lo spazio era per tutti un po’ più vicino.

 

I due cosmonauti vennero svegliati alle 5.30. Esercizi, colazione e la pesantezza dei pensieri che sfioravano i movimenti attenti, di una routine studiata e millimetrica che stava conducendo Yuri Gagarin o alla gloria o alla morte, nessuno la conoscerà mai. Tutto era ammesso, anche l’emozione, attorno a lui l’intera Unione sovietica era in agitazione, agli ingegneri che gli sistemavano la tuta tremavano le mani. Uno di loro, Sergei Korolev, il capo della missione, prese addirittura un calmante, il cuore gli stava per esplodere. Il cuore di Yuri Gagarin invece registrava 64 battiti al minuto, la perfezione. Era il cosmonauta perfetto. Nato per quella missione, aveva tutte le caratteristiche per entrare nella storia e nello spazio e per questo venne scelto. Era solare, tranquillo, socievole, testardo, tenace e basso. Un metro e sessantacinque centimetri di altezza, per riuscire a stare distesi in una navicella spaziale, era la statura giusta, anzi perfetta. Per un uomo troppo alto sarebbe stato più complicato e si sa, i russi tendono a essere un popolo molto alto. Non Yuri Gagarin, nato per quella missione. A rivelare i particolari della vita del cosmonauta è un archivio che la Russia ha deciso di rendere disponibile online per i cinquant’anni dalla morte.

 

 

 Yuri Gagarin con la tuta da cosmonauta

 

Il giorno del lancio, le autorità del partito avevano preparato tre comunicati. Tutto era ammesso, anche la morte. Un comunicato serviva a far sapere al mondo che la missione era riuscita e due diversi a seconda delle circostanze, ne comunicavano il fallimento. Delle sette navicelle lanciate nello spazio senza equipaggio a bordo, solo tre erano tornate sulla terra, le altre si erano disintegrate. Fino a quel momento gli unici esseri con sembianze umane che erano entrati in una navicella erano dei fantocci e si chiamavano tutti Ivan Ivanovic, un nome comune in Russia. Tre Ivan Ivanovic rividero la terra, gli altri quattro no, quindi Gagarin aveva più probabilità di morire che di sopravvivere. Lo sapeva ma la mattina del 12 aprile si dimostrò come sempre “gioioso e tranquillo”, si legge negli archivi.

 

Indossava due tute, poste l’una sopra l’altra. Una blu, calda e l’altra arancione, protettiva. Un paio di cuffie e sopra, il casco bianco con la scritta rossa: Cccp, Sssr, Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Il suo viaggio avrebbe rappresentato il successo o l’insuccesso di quella sigla che portava impressa sul casco: doveva partire. Tra i 3.461 candidati, era stato scelto lui. Sulle carte pubblicate si legge che era “devoto alla causa del partito e alla madrepatria socialista”, l’Urss aveva bisogno di un uomo così. Foto, dichiarazioni, raccomandazioni. Gagarin salì sull’autobus che lo avrebbe portato alla rampa di lancio. Fermò il mezzo per una necessità fisiologica, fu inevitabile, tutti pensarono, malignarono, temettero che quell’uomo “socievole, gentile ed educato nei rapporti umani” stesse cedendo. Invece no, Gagarin scese solo per fare pipì sulla ruota

Era solare, tranquillo, socievole, tenace. E basso: un metro e 65 centimetri era la statura perfetta per stare distesi nella navicella spaziale

posteriore del mezzo. Non lo sapeva ma questo sarebbe diventato un rito che ancora oggi gli astronauti russi continuano a compiere. L’intera Unione sovietica era terrorizzata, elettrizzata, lui era calmo. I minuti venivano scanditi dai cerimoniali, dalle strette di mano, fiduciose o frettolose, dalle speranze di vederlo atterrare e dalle certezze che quell’uomo non sarebbe mai tornato indietro. Tutto doveva avere inizio alle 9.07. La storia si fa con precisione. Tutto era ammesso, ma non il ritardo. Gagarin non sapeva dei tre comunicati, salì sulla rampa, si guardò indietro, sorrise, sorrideva sempre con la sua faccia entusiasta. Oltre a quelle mani tese in saluto verso di lui al cosmodromo, c’erano quelle di tutta l’intera Unione sovietica in attesa. C’era la paura di sua moglie Valentina, rimasta a casa con in braccio la figlia Galina, troppo piccola per capire che suo padre stava per volare nello spazio, quarantatré giorni appena non bastano per comprendere cosa sia lo spazio, ma forse nemmeno per capire cosa sia un padre. C’era anche Yelena di due anni, piccola ma non troppo, sicuramente già in grado di scandire le due sillabe pa-pa, papà, in russo. Quel padre, vestito di arancione, con l’enorme casco bianco sulla sua testa che sorrideva persino con gli occhi era fermo davanti alla porta della Lastochka, si voltò e disse “Poechali!”, andiamo. Con lui stavano salendo a bordo le ansie di una nazione sconfinata, le velleità di vittoria, i progetti. Con lui salivano a bordo anche le invidie degli americani, che, comunque si fosse conclusa la missione, erano stati battuti sul tempo.

 

La navicella pesava 4,7 tonnellate, era alta 4,4 metri. Il cosmonauta si distese nel modulo di forma sferica, dall’altra parte c’era il modulo di servizio, 16 serbatoi contenenti ossigeno e azoto. Ansia e sogni, vita e morte vennero lanciate a bordo della missione Vostok 1, partita da Bajkonur, in Kazakistan. Dopo pochi minuti aveva raggiunto la traiettoria programmata con un’inclinazione di 65 gradi. “Funziona tutto, funziona tutto”, continuava a ripetere Gagarin. Tutto stava funzionando. L’uomo era diretto nello spazio, pilotato dalla Terra. Un’ora e mezza di volo, 89 minuti e 1 secondo, un’orbita intorno alla Terra. Dallo

Viaggi, visite di stato, lezioni all’università. Poi sorse il desiderio di volare, di imparare a pilotare un aereo. Lo uccise un errore non suo

spazio il cosmonauta vedeva il mondo nella completezza: “Vedo la Terra blu”, disse. Era blu, con i mari, gli oceani, le nazioni che guardavano al cielo e cercavano lui. Dopo aver eseguito un’orbita completa a 27.400 chilometri orari di velocità, i retrorazzi frenanti si accesero per consentire il rientro. Erano le 10.25, la capsula in cui si trovava il cosmonauta si sarebbe dovuta staccare dal secondo modulo, per consentire meglio il rientro nell’atmosfera, ma un bullone non cedeva e la navicella continuava a rimanere unita. Tutto era ammesso, anche un problema tecnico. Iniziò a ruotare su se stessa e la parte con le provviste prese fuoco. Dalla Terra temevano che il cosmonauta sarebbe morto così, che la storia della prima missione nello spazio sarebbe fallita per colpa di un bullone difettoso e del fuoco, che Gagarin non sarebbe mai diventato un eroe. Invece fu proprio il fuoco a salvare la missione. Bruciò per primo quel bullone e il modulo che trasportava l’astronauta si staccò. A settemila metri Gagarin poté catapultarsi fuori, bisognava tornare sulla Terra e raccontare lo spazio, ma si aprì il paracadute e poi il secondo di emergenza, un inconveniente. I lacci dei due salvavita si stavano intrecciando, ma nonostante tutto, il cosmonauta tornò in Russia e atterrò vicino alla città di Engels, leggenda vuole in un campo di grano, accanto a una contadina. Anche Yuri Gagarin veniva da una famiglia contadina, di Klushino vicino a Smolensk, era un uomo nato per diventare un’icona e nell’archivio si legge spesso la frase “di etnia russa e di origini contadine”.

 

Insomma, l’Urss aveva battuto gli Stati Uniti e per Gagarin la vita stava cambiando. Era diventato ormai il simbolo di una delle vittorie più importanti dell’Unione sovietica, era arrivato per primo, certo pilotato dalla Terra, nello spazio e il partito sapeva, come si legge negli archivi, che non era solo merito degli ingegneri, Delle macchine che dalla stazione spaziale stavano sorvegliando il volo, molto si doveva a lui. Tenace, collaborativo, solerte, era l’homo sovieticus perfetto e se la sua vita era stata votata fino a quel 12 aprile alle missioni spaziali, da quel momento le missioni spaziali gli vennero vietate. Yuri si laureò in Ingegneria, continuava a partecipare alle missioni, ma non poté mai più rivedere “la Terra blu”. Il 6 agosto dello stesso anno toccò a German Titov, la sua riserva, partire per lo spazio in un viaggio che durò più di venticinque ore. A Gagarin rimasero i fasti, i riconoscimenti, era l’uomo più importante dell’Unione sovietica, forse uno dei russi più conosciuti al mondo, la celebrità indiscussa delle stazioni spaziali, ma non poteva volare. La sua vita non apparteneva più a lui, alla moglie Valentina o alle figlie. Non apparteneva più nemmeno allo spazio, apparteneva al partito. Volare era troppo rischioso. Da quel 12 aprile, la vita del cosmonauta trascorre tra visite di stato, lezioni all’università, viaggi e Gagarin iniziava ad accusare la stanchezza di una vita che aveva smesso di possedere. Aveva visto lo spazio, aveva conosciuto un’emozione al di sopra della comprensione umana e ora l’obiettivo dell’Unione sovietica era conservarlo. Partecipò alla preparazione della missione Vostok 6, quando fu la volta di una donna, Valentina Tereshkova. Studiò la costruzione del controverso programma Sojuz, continuavano a ripetergli che prima o poi sarebbe potuto tornare nello spazio, ma non ora, ora il suo apporto serviva a terra.

 

Poi sorse il desiderio di volare, di imparare a pilotare un aereo, un desiderio legittimo anche se limitante per uno che aveva compiuto un’orbita attorno alla Terra. Era il 1968 e il cosmonauta inizia a prendere lezioni di volo. “E’ particolarmente portato, apprende rapidamente”, scrive il suo insegnante che lo prepara per l’esame finale. Il 27 marzo, l’esame. Nel frattempo il cosmonauta riceve un’altra notizie, potrà partire per la missione Sojuz 3, diretta verso la Luna. Come pilota Gagarin era attento, prudente e appassionato. Anche il giorno dell’esame tutto inizia regolarmente. Gli esaminatori da terra gli chiedono di effettuare alcune manovre che lui porta a termine agevolmente sul suo Mig-15 Uti, e poco dopo aver ricevuto l’ordine di tornare alla base, il suo aereo perde quota, cade nel vuoto, cerca di risollevarsi, ma precipita nelle vicinanze della città di Kirzac. L’Unione sovietica aveva lasciato morire un eroe. A lungo si è indagato sulla morte del cosmonauta, che in

Scelto tra 3.461 candidati. “Devoto alla causa del partito e alla madrepatria socialista”: l’Urss aveva bisogno di un uomo così

cielo sembrava una beffa o un dispetto. Si disse che era stato colto da un attacco di panico, che non aveva fatto in tempo a sganciare il seggiolino eiettabile, o che non aveva voluto sganciarlo appositamente perché altrimenti l’aereo si sarebbe schiantato nel centro abitato di Kirzac. Un eroe non può morire per errore, deve morire da eroe. Nelle carte desecretate e messe online si legge di tutto. Teorie, ipotesi, paure. Qualcuno credeva che il Cremlino avesse voluto uccidere il cosmonauta, che era sempre più impaziente, voleva rivedere lo spazio, era ingombrante, nell’Unione sovietica l’errore non era ammesso. La tesi dell’attacco di panico parve in fretta una fantasia postuma anche un po’ offensiva per la memoria dell’uomo che si era fatto lanciare nello spazio rinchiuso nell’abitacolo di una navicella chiamata Lastochka, rondine in russo. Gli eroi non hanno paura, non hanno attacchi di panico. Ma è stato un errore a uccidere Gagarin. Un errore non suo. Dai documenti si vedono alcuni studi sugli aerei, sulla rotta del volo del cosmonauta: probabilmente, fu un comando incauto a causare la morte dell’uomo più importante dell’Unione sovietica. Quella mattina infatti l’aviazione militare autorizzò delle manovre proprio nello spazio aereo in cui si svolgeva l’esame di volo di Gagarin. L’aereo del pilota si trovò accerchiato da tre velivoli, uno dei quali era un grosso aereo da guerra che fece probabilmente perdere quota a quello di Gagarin. Il Mig precipitò, forse il cosmonauta avrebbe potuto fare qualcosa, forse sarebbe potuto sopravvivere, ma la storia è questione di momenti, di istanti, di casualità e precisione. Naturalmente, nemmeno le carte dell’archivio possono svelare che cosa abbia pensato prima di morire Gagarin. Forse non ha pensato, forse ha sperato. Mentre volava nello spazio, pare avesse detto: “Non vedo nessun Dio quassù”. E Kruscev per difendere l’ateismo di stato: “Perché state aggrappati a Dio? Gagarin nello spazio non l’ha trovato”.

Nel precipitare veloce e impietoso dal cielo alla terra, mentre il suolo si faceva sempre più vicino e la vita sempre più lontana, Yuri Gagarin deve aver pensato allo spazio, immenso, lontano, senza simboli, senza storia ma governato dal tempo, con o senza Dio.

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