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Le dimissioni di Kuczynski evidenziano il vero problema del Perù: il mercatilismo

Maurizio Stefanini

Il presidente peruviano si è dimesso a causa dell’ennesimo scandalo di corruzione. Il paradosso di un paese con cifre economiche da boom, ma con una politica costantemente nei guai. Intervista ad Álvaro Vargas Llosa

Ieri Pedro Pablo Kuczynski ha rinunciato alla presidenza del Perù. A spingerlo alle dimissione è stato l’ennesimo scandalo di corruzione che ha colpito il suo governo. Oggi infatti il Congresso avrebbe votato la mozione per destituirlo per i suoi presunti legami con l'impresa brasiliana Odebrecht. Fatti che avevano condotto alla più grande indagine per corruzione nella storia dell’America Latina e che da mesi stanno paralizzando l’economia peruviana.

 

“Il Perù cresce perché nell’ultimo quarto di secolo è stato uno dei paesi che di più ha aperto la sua economia e che ha saputo mantenere questo orientamento all'interno di un sistema democratico. Ma la crescita ha già molto rallentato, da alcuni anni. Il divorzio tra una politica da quarto mondo e una economia da secondo mondo è un fenomeno molto interessante. La domanda è se, alla lunga, l’economia sopporterà tanto sottosviluppo politico”.

 

Il commento che ci dà il politologo Álvaro Vargas Llosa non è solo sulle dimissioni da presidente del Perù di Pedro Pablo Kuczynski: tecnocrate liberale che era stato eletto col voto della sinistra apposta per sbarrare la strada a Keiko Fujimori. Più in generale, è relativa al paradosso di un paese con cifre economiche da boom, ma in cui tutti i presidenti eletti negli ultimi 28 anni sono finiti nei guai.

 

Il primo della serie è stato Alberto Fujimori: agronomo di origine giapponese eletto nel 1990 col voto della sinistra per evitare la candidatura liberale di Mario Vargas Llosa, il futuro Nobel per la Letteratura e padre di Álvaro. Indubbiamente popolare per le sue vittorie sull'inflazione e sul terrorismo di estrema sinistra ma al contempo autocrate corrotto, fu costretto alle dimissioni nel 2000 da uno scandalo di intercettazioni e dalla protesta popolare. Condannato nel 2009 a 25 anni di carcere per corruzione, poi arrivati a 32, è stato però graziato a dicembre da Kuczynski, dopo che una parte del partito fujimorista lo aveva salvato da un impeachment. Scelta che provocò una rottura tra i due figli di Fujimori, il fratello Kenji protagonista dell'accordo, la sorella Keiko ostile.

  

Dopo Fujimori, fino al 2006, fu il tempo di Alejandro Toledo, “l'indio di Harvard”: economista e primo presidente di origine indigena eletto nelle Americhe. Anche lui inquisito per le tangenti del gruppo brasiliano Odebrecht, è ora esule negli Stati Uniti, anche se il Perù ne ha appena chiesto l'estradizione. Il suo posto fu preso Alan García, del partito populista-socialdemocratico Apra. Vargas Llosa, che era sceso in campo nel 1990 contro il populismo del suo primo mandato, stavolta lo appoggiò contro Ollanta Humala: ex-militare protagonista di un tentativo di insurrezione contro Fujimori, poi divenuto leader della versione peruviana del chavismo. García governò in chiave moderata, ma anche lui è ora sotto inchiesta per arricchimento illecito e riciclaggio. Nel 2011 fu Ollanta Humala ad essere eletto con l'appoggio di Vargas Llosa padre, ed a fare a sua volta una svolta moderata. Da 18 mesi è in detenzione preventiva, con l'accusa di riciclaggio e associazoone a delinquere. Da ultimo il caso Kuczynski, che si dimette per prevenire una nuova richiesta di impeachment. E anche se in realtà il presidente del Congresso Luis Galarreta deve ancora accettare le dimissioni, il vicepresidente Martin Vizcarra ha subito detto che ne assumerà le funzioni.

 

“Mercatilismo” è la parola chiave con cui questo tipo di relazioni pericolose tra politica e economica in America Latina erano state definite da Álvaro Vargas Llosa già dagli anni Novanta. Con libri e programmi tv aveva indagato sulla relazione tra le ideologie stataliste di oggi e quell’ideologia seicentesca che era stata alla base dell’impero coloniale spagnolo – e anche della sua rovina –, e che però in America Latina è stata conservata come in una nicchia ecologica.

 

“Il mercantilismo”, spiega al Foglio, “è quel sistema in cui il successo economico è determinato dalla vicinanza al potere. Manca quella separazione tra lo Stato e il mondo degli affari, che dovrebbe essere altrettanto netta di quella tra lo Stato e le chiese. Il populismo è un sistema in cui la relazione tra il caudillo e il ‘popolo’ prende il posto delle istituzioni: tanto politiche quanto economiche o di altro tipo. Nella misura in cui lo Stato è determinante per la vita economica in entrambi i casi, il mercantilismo e il populismo hanno molto in comune. L’America Latina ha avuto tradizionalmente sistemi mercantilisti, che dagli anni Trenta in poi hanno iniziato a essere allo stesso tempo anche mercantilisti”.

 

Nei suoi libri è sottolineato il modo in cui il populismo si giustifica con la lotta alla diseguaglianza e alla povertà, e invece finisce per aumentarle. Ma anche a Davos il dibattito sull’eguaglianza rimbalza ora più forte che mai, assieme a quello sul proibizionismo. Cosa pensa di Piketty? 

“Piketty non ha detto cose troppo originali, però è venuto in un momento molto opportuno per dare argomenti a coloro che contestavano il capitalismo liberale dopo l’ecatombe della crisi finanziaria, cercando di dimostrare che il successo si concentra tra i ‘padroni’ del capitale a spese di coloro che fanno il lavoro. Ma ciò che è invece avvenuto in Cina, in India, in vari paesi dell’Europa Centrale e dell’Europa dell’Est, in alcuni paesi dell’America Latina, rende ovvio che la rendita del capitale non si dà a spese di coloro di che non lo hanno, ma grazie alla simultaneità con l’ascesa sociale e il progresso economico dei più poveri”.

 

Di recente lei è stato anche coautore di un libro sul populismo. Ma perché questa ideologia così latino-americana in questo momento si sta espandendo in Europa e in Nord America, proprio nel momento in cui nella sua terra di origine appare in crisi?

“Per quattro ragioni. Una è la crisi finanziaria del 2006 col suo seguito. Un’altra è la dislocazione temporale prodotta dalla globalizzazione in certe industrie. Se uno è operaio di una industria manifatturiera del Midwest statunitense, i suoi padri e nonni hanno lavorato in questa industria, all’improvviso questa industria emigra e ci si deve adattare a altre industrie, il mondo sembra cambiare in senso negativo. Il terzo è l’immigrazione, fenomeno molto vincolato all’anteriore. L’aumento dell’interscambio di beni e servizi nella globalizzazione inevitabilmente provoca l’aumento della circolazione delle persone e le comunità chiuse o semi aperte si vedono all’improvviso di fronte a un fenomeno che mette paura. Il quarto è il terrorismo islamico, che ha aumentato la paura prodotta dall’immigrazione".

 

È corretta l’immagine di Papa Francesco come una sorta di ambasciatore di questo populismo latino-americano?

“Il Papa interpreta la dottrina sociale della Chiesa nel suo aspetto più anticapitalista, però non si tratta esattamente di un populista, quanto piuttosto di un uomo che dal punto di vista intellettuale si è firmato nello ‘sviluppismo’ latinoamericano degli anni Sessanta, con la sua sfiducia verso il capitale privato e verso gli Stati Uniti. In ciò ha anche molto del gesuita, anche”.

 

La crisi del populismo comporta però un’avanzata della democrazia e dello stato di diritto in America Latina? Si era parlato di una sorta di “primavera liberale”, ma alcuni ultimi sviluppi non sono del tutto incoraggianti. Compreso quel che è successo in Perù.

“Non c’è mai stata una primavera liberale in America Latina. C’è stato solo un fallimento del populismo e una sua sostituzione con governi distinti. Alcuni con tendenza liberale ma che devono ancora dimostrare se sono effettivamente all’altezza della loro retorica. In Argentina ci sono cambi interessanti. In Brasile ci sono state alcune riforme, malgrado l’impopolarità del presidente Temer. In Cile la vittoria di Piñera promette qualcosa di simile. In Ecuador quel che fa Lénin Moreno è interessante, ma deve ancora dimostrare che il suo orientamento economico sia tanto audace come la sua rottura politica con Correa”.

 

Il caso Odebrecht è una sorta di cancro che sta otra devastando l'intera America Latina, ma le cui origini sono nel Brasile di Lula. Lei è tra coloro che all’interno dei governi dell’ondata a sinistra latino-americana ha distinto tra una sinistra “carnivora” di vecchio stampo e una sinistra “vegetariana” pragmatica e in grado di accompagnare la crescita. Il più illustre “vegetariano” era Lula. Che dire della sua parabola?

“Bisogna concludere che Lula è stato un vegetariano apparente. Nella pratica il suo sistema è stato populista e mercantilista, con una spesa pubblica smodata e una politica di favori politici in cambio di favori economici. Il risultato è il disastro che possiamo vedere.

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