La “normalità” di Trump vista da un critico (di sinistra) della sinistra

Lo stato dell’Unione punta su una virata convenzionale. Lo storico Sam Moyn vede il pericolo nell’isteria dei critici

New York. Samuel Moyn non dice proprio l’avevo detto, ma ora che da diversi quartieri si ammette che Donald Trump in un anno di governo non ha fatto una rivoluzione autoritaria e nazionalista lui si sente “largely vindicated”, ampiamente giustificato dai fatti. Poco meno di sei mesi fa lo storico di Yale ha scritto, da sinistra, un commento sul New York Times assieme a David Priestland in cui sosteneva che la vera minaccia alla democrazia non fosse Trump, ma l’isteria dei suoi critici che strumentalmente esageravano i pericoli di un presidente politicamente ondivago e culturalmente impalatabile. Il termine “isteria”, ci tiene a precisarlo, è il frutto della semplificazione dei titolisti, ma è quello che ha colpito l’immaginazione dei lettori.

 

Da quel momento Moyn è passato da brillante storico di sinistra e castigatore dei suoi ex amici clintoniani ad argine dell’isteria antitrumpiana. La dittatura non si è materializzata e oggi Trump, al netto dell’intrigo sulla collusione con il Cremlino, sul quale sta indagando uno special counsel al di sopra di ogni sospetto, è nel mezzo di una virata politica verso qualcosa d’indefinibile che somiglia però a una normalizzazione.

 

Secondo le anticipazioni della Casa Bianca del discorso sullo stato dell’Unione, Trump vuole esaltare la forza dell’America che marcia a ritmi di crescita sostenuti e con disoccupazione ai minimi, parlare di infrastrutture, aprire la porta a compromessi sull’immigrazione lontanissimi dalle vecchie parole d’ordine nativiste, rivendicando il successo di una riforma fiscale che porta il sigillo reaganiano, non le effigi del protezionismo; le trovate più estreme e scioccanti prendono la polvere assieme ai cimeli della campagna elettorale oppure sono state bloccate dai giudici.

 

Moyn è stato bersagliato dal fuoco amico per avere presentito il clima, e davanti a un caffè rigorosamente organic a Gramercy Park, a Manhattan, spiega al Foglio che le sue posizioni sul significato di Trump e del trumpismo reggono alla prova della storia, “anche se licenziasse Mueller domani”. E che il fuoco non era poi così amico. “La mia tesi – dice Moyn – era che esagerare la discontinuità che Trump rappresenta nella storia americana e ingigantire la minaccia di qualche tirannia imminente è non solo sbagliato, ma è anche pericoloso. L’editoriale è uscito due giorni prima dei fatti di Charlottesville (le manifestazioni in cui una persona è stata uccisa da un militante neonazista, ndr) e abbiamo ricevuto un sacco di reazioni arrabbiate, perché quello che è avvenuto lì è stato letto come il preludio di una marcia su Roma o qualcosa del genere. Tutti hanno sottolineato i tratti razzisti che sono a fondamento della figura di Trump, e pensavano che quella circostanza dimostrasse le loro tesi. Non negherò mai che esistano tratti patologici nella società americana, e penso che sia orrendo esporli pubblicamente e valorizzarli, ma nella realtà dei fatti a Charlottesville c’era qualche centinaio di skinheads venuti da tutto il paese, mentre Trump è stato votato da 60 milioni di persone. Non bisogna mai perdere la prospettiva”. Per Moyn il primo anno di governo ha dimostrato innanzitutto che “la repubblica americana è in grado di resistere e che le istituzioni sono al sicuro” e in seconda battuta che Trump non è un alieno: “Finora le politiche che sono state attuate sono quelle che i repubblicani hanno sempre voluto a partire dalla Reagan Revolution. La moralità conservatrice in ambito sociale simboleggiata dalla nomina di Neil Gorsuch alla Corte suprema, combinata con il libero mercato simboleggiato dalla riforma fiscale. Tutte le altre cose che ha provato a fare sono per lo più fallite”. La peggiore continuità, a giudizio di Moyn, è però con i democratici, e qui va ricordato che lo storico 45enne con una fama da rockstar nei circoli intellettuali è il più improbabile dei critici della sinistra liberal americana. 

 

E’ cresciuto immerso nella mitologia della “fine della storia”, ha creduto nelle promesse universali dell’internazionalismo liberal, ha abbracciato la promessa della democratizzazione globalizzata e per dare una dimensione pratica a queste passioni ha lavorato nell’Amministrazione Clinton, salvo poi rinnegare tutto quando si è imbarcato in una ricerca delle origini dei diritti umani che ha infine prodotto “The Last Utopia”, libro che è nella lista nera di ogni fedele clintoniano. “Not Enough: Human Rights in an Unequal World”, in uscita ad aprile negli Stati Uniti, è una specie di sequel aggiornato all’èra trumpiana. Per chiarire ancora meglio la sua posizione, alle ultime elezioni ha fatto campagna per Bernie Sanders.

 

La continuità fra Trump e l’agenda democratica ha a che fare con la concezione politica di fondo, non con i dettagli della policy: “Trump porta avanti una serie di idee centriste e mainstream che in passato erano condivise da democratici e repubblicani, ad esempio la filosofia liberista in economia o l’espansione della forza militare all’estero, che i due partiti si limitano a presentare in modo diverso. La politica sull’immigrazione è nello stesso solco: non va mai dimenticato che Obama ha rimpatriato più clandestini di qualunque altro presidente nella storia. La guerra al terrore è una variazione sul tema composto da Bush e Obama. L’idea che ci sia questa grande differenza con il passato per me è assurda. Penso che Trump non sia così nuovo come vorrebbe, e questo presenta l’occasione per i suoi avversari di dimostrare che abbiamo già visto tutto questo. Io sono di sinistra, più o meno, e vorrei vedere un Partito democratico nuovo, non così vicino a Trump e ai repubblicani come quello di oggi. Poiché Trump è così debole, i democratici hanno ancora la possibilità di sfruttare l’occasione”.

 

La rottura di Trump è stata fortemente esagerata, innanzitutto da Trump stesso, che “ha promesso cose diverse da quelle che appartengono alla tradizione conservatrice dopo Reagan, specialmente per quanto riguarda la politica estera e il commercio. Sono cambiamenti importanti, ma in quale delle cose che ha detto credeva? Come Obama, ha corso in un certo senso come candidato contro la guerra, ma poi non ha fatto nulla di diverso dai repubblicani ordinari. Aveva promesso una guerra commerciale con la Cina e non ha fatto molto”. Più in generale, aveva promesso una cesura con l’ordine liberale che è messo sotto pressione da ogni parte, ma poi ha fatto cadere su questo compito storico – di cui era largamente inconsapevole – una cortina fumogena fatta di imprevedibilità, narcisismo e nonsense che ha confuso ogni cosa. Moyn è convinto che l’asse della politica globale si stia spostando, ma più che l’assetto liberale creato dopo la Seconda guerra mondiale è l’utopia internazionalista del post Guerra fredda la vera vittima dello Zeitgeist populista. E di questo omicidio ideologico non è affatto dispiaciuto: “L’ordine liberale come lo intendiamo oggi è in realtà un insieme di idee forgiato negli anni Ottanta e poi proiettato all’indietro nel Dopoguerra e anche prima, con Woodrow Wilson. Il concetto di internazionalismo liberal non è mai apparso prima dell’opposizione dei liberal contro Reagan, il termine stesso non era in uso nella lingua inglese”.

 

Dunque Trump non ha fatto una rivoluzione epocale, ma ha distrutto le illusioni di un paio di generazioni di liberal: “Quelli che davvero sono sotto choc sono gli internazionalisti liberal, perché ora scoprono che se abbracci la globalizzazione e il liberismo finisci per avvantaggiare i più ricchi, ma se poi non combatti la stagnazione e non c’è una base di prosperità condivisa abbastanza ampia inviti risposte reazionarie, come quelle che vediamo oggi. Gente come Anne-Marie Slaughter o John Ikenberry stanno cambiando posizione molto più di quanto la stia cambiando Trump: stanno dicendo, senza esplicitarlo chiaramente, che si erano sbagliati”. Il peccato originale di quella stagione va collocato, secondo Moyn, “nella distruzione della politica economica globale negli anni Settanta, quando la stagflazione e la regressione della prosperità diffusa hanno cambiato l’assetto globale. Quello che è venuto dopo non ha mai valorizzato forme economiche e di welfare locali. Adesso stiamo semplicemente raccogliendo ciò che abbiamo seminato allora”.

 

Maestro della disillusione intorno al mondo “unipolare”, per usare l’aggettivo reso noto da un famoso saggio di Charles Krauthammer al tramonto della Guerra fredda, e lontano dai critici neomarxisti di nuova generazione (“a Brooklyn tutti quelli sotto i trent’anni con una laurea si definiscono marxisti”), Moyn non si riconosce fino in fondo nell’etichetta di critico del liberalismo: “Credo invece che il progetto liberale non abbia ancora raggiunto il suo potenziale perché si è identificato troppo con il liberismo economico”, mentre invece “dovremmo concentrarci a ricostruire una sinistra che combini con più equilibrio le istanze della socialdemocrazia e i benefici del mercato”. Trump, le recrudescenze nazionaliste, la politica dell’identità, il sospetto verso ogni ordine sopranazionale non sono che reazioni a questa deviazione del liberalismo dal suo corso naturale. E Moyn mette fra le conseguenze anche la postmodernità, che invece un Emmanuel Macron enumera fra le cause dello sfaldamento globale, per via della feroce insistenza sulla distruzione delle “grandi narrazioni” che tenevano insieme elementi eterogenei. Sorseggiando un caffè con disincanto, la stella dei giovani storici americani osserva lo stato della disunione come una conseguenza inevitabile di certe premesse, da affrontare elaborando idee e ricette politiche innovative, senza isteria.

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