Huo Jinghong, discendente del grande maestro cinese di Wushu, pratica il pugilato di Huo alla Tianjin University of Commerce (LaPresse)

È tutto l'anno che la Cina "sicura di sé" ci dà lezioncine, ma il trucco si vede

Giulia Pompili

Libero mercato e altre storie per l'occidente credulone

Roma. Libero mercato, inquinamento, giornalismo, estremismi, strategie politiche e soft power. Non esiste un solo campo in cui, secondo la visione del mondo di Pechino, l’occidente non possa prendere lezioni dalla Cina. Il motivo è tutto in una parola, 自信 [zìxìn], che in inglese è tradotto con “confidence” e che in italiano definisce la fiducia in se stessi, ma anche la presunzione. Già nel 2012 l’allora presidente cinese Hu Jintao aveva delineato la strategia programmatica del Partito comunista, dicendo che i suoi membri avrebbero dovuto avere fiducia nel “percorso scelto, nel sistema politico e nelle linee guida”. Qualche anno fa Xi Jinping, “il più autoritario leader dopo Mao” (copyright New Yorker), ha aggiunto alle tre direttrici di Hu Jintao una quarta, e cioè la fiducia “nella cultura cinese”. Dopo l’ultimo Congresso del partito è stato sempre più chiaro come la dottrina della fiducia si sia trasformata in uno dei pilastri su cui si basa la politica di Xi Jinping, ed è il pulpito dal quale Pechino può dare consigli all’occidente. A volte l’occidente ci casca – come quando al Forum di Davos era stato Xi Jinping “a difendere la globalizzazione” dal momentum sovranista europeo e americano. Ma per capire le ragioni di certi messaggi, che non sono quasi mai disinteressati e sembrano in contraddizione con il tradizionale isolamento della Cina dal mondo, è necessario guardare al quadro d’insieme.

    

L’ultimo esempio è quello delle fake news. Dando ragione a Donald Trump, che non perde occasione per criticare la stampa americana, qualche settimana fa sul Quotidiano del popolo cinese il columnist Curtis Stone spiegava che “quello delle fake news non è un problema nuovo per la Cina”: la stampa occidentale spesso dipinge la Cina “in termini negativi”, e quando Pechino tenta di difendersi etichetta tutto come “propaganda”. Quindi le fake news sono “nemiche della gente”: prendete esempio da noi, che sappiamo come gestirle e anzi, ignorarle, proteggendo così i nostri cittadini. Ma il cortocircuito è evidente: una notizia falsa non può essere paragonata alla quantità enorme di notizie censurate da Pechino.

     

Dietro al termine “propaganda” – erroneamente utilizzato per definire gli “alternative facts” dei governi come quello di Pechino – si nasconde spesso il sofisticato sistema cinese per inserirsi nelle grandi istituzioni del pensiero: think tank, università, media. Ce ne siamo accorti improvvisamente, nel corso di quest’anno. A fine novembre Foreign policy ha fatto un lungo e dettagliato racconto dei finanziamenti della China-U.S. Exchange Foundation, fondata nel 2008 dal magnate Tung Chee-hwa, braccio armato della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Secondo Foreign Policy l’istituzione è “uno dei più importanti tentacoli di Pechino per espandere la sua influenza”.

  

Pechino, Xi Jinping incontra Justin Trudeau (foto LaPresse) 

            

Giornalisti, intellettuali, accademici occidentali partecipano ogni anno alle iniziative della fondazione di Tung, e la stessa fondazione finanzia e partecipa alle attività dei più grandi pensatoi americani, dalla John Hopkins in giù. Finanziare vuol dire anche poter domandare, ovvero censurare, quando serve. E quindi, quando l’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, commentando la strategia di sicurezza nazionale di Donald Trump, dice che “il documento di Trump manca di una prospettiva veramente globale, di una visione lungimirante e un approccio costruttivo e collaborativo nelle relazioni internazionali”, e sa di cosa sta parlando. La Cina è l’unica potenza al mondo ad avere una visione davvero globale e lungimirante, considerati gli investimenti sul lungo termine fatti nei quattro continenti. L’ultimo esempio di questa penetrazione lo raccontava Politico Europe l’altro ieri, parlando degli Istituti Confucio, gestiti per metà da università locali e per metà dall’Hanban, l’ufficio internazionale per la lingua cinese che ha legami molto stretti con il governo di Pechino.

   

Poi, naturalmente c’è il business. E se l’occidente era rimasto piacevolmente affascinato dal leader cinese unico globalizzatore al Forum di Davos, all’inizio di dicembre anche Jack Ma, fondatore e multimilionario di Alibaba, si è infilato nella disputa commerciale tra America e Cina difendendo – manco a dirlo – la strategia di Pechino: “Avevo avvertito Jeff Bezos – il fondatore di Amazon – dieci anni fa. Gli avevo detto: per favore manda in Cina persone con spirito imprenditoriale, non dei manager professionisti”. E poi, alle altre compagnie americane che volessero investire in Cina: “Quando sei pronto per venire, preparati. Segui le nostre regole e stai qui almeno dieci anni. Non è un mercato da cui puoi andare e venire”.

 

Del resto, con l’America che si ritira, la Cina ha campo libero su un bel po’ di settori, e può finalmente iniziare a spostare l’ago della bilancia verso oriente. La green economy, per esempio, è la grande scommessa di Xi: mentre Trump è “uscito” dagli accordi di Parigi, la Cina sta per mettere una “tassa” sulle emissioni per ristabilire un nuovo rapporto di fiducia con i cittadini e si mostra al mondo come il vero antagonista di Donald Trump – mica il paese più inquinante del mondo. Anche il World Political Parties Dialogue, organizzato alla fine di quest’anno dal Partito comunista di Pechino, rientra un po’ nell’ambito della fiducia, delle lezioni da dare all’occidente. Guo Yezhou, del dipartimento internazionale del Comitato centrale, ha detto che il nostro Partito è aperto e pronto al dialogo, perché vuole ascoltare altre realtà, ma soprattutto “introdurre al mondo la sua esperienza e il suo modello”. C’è da credergli, considerato che la Repubblica popolare cinese è governata dallo stesso partito sin dal 1949.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.