Mark Zuckerberg (Foto LaPresse)

E' iniziata la guerra di Washington alla Silicon Valley opaca e impunita

Facebook non collabora sul caso russo, ma una coalizione bipartisan vuole trascinarlo davanti al Congresso

New York. Martedì il senatore Mark Warner si è detto profondamente “deluso” dall’atteggiamento di Facebook. I rappresentanti del social network si sono infatti rifiutati di fornire allo staff della commissione Intelligence del Senato dettagli sugli spazi pubblicitari acquistati da soggetti riconducibili al Cremlino che volevano influenzare le elezioni americane. Facebook ha ammesso che fra giugno 2015 e maggio 2017 circa tremila ads politici sono stati acquistati attraverso account fasulli “probabilmente operati dalla Russia”, per un valore totale di 100 mila dollari. Centinaia di questi utenti fake agivano in violazione delle politiche di sicurezza imposte da Facebook, ma le malefatte sono emerse quando ormai era troppo tardi.

 

Mercoledì l’azienda di Menlo Park ha aggiunto un altro dettaglio. La presenza dei russi attraverso una troll farm che va sotto il nome di “Internet Research Agency” non si limitava all’ambito social, ma c’è traccia di eventi di natura elettorale organizzati o promossi da utenti riconducibili agli account falsi in questione. Gli utenti sono stati sospesi e le tracce dei raduni cancellate, ma a parte questo non si sa molto. Facebook, regno della connessione e delle frontiere aperte, ha alzato un muro. Non vuole rivelare i contenuti delle inserzioni, si rifiuta di dare agli inquirenti dettagli sugli account in questione e non pubblica nemmeno i dati sull’efficacia dei messaggi pubblicitari, nonostante, dice Warner, “ci siano ulteriori prove su nuovi ads e su come questi siano stati usati per manipolare le persone”.

 

Campaign Legal Center, ente non profit che si occupa di monitoraggio delle campagne elettorali, ha scritto una lettera a Mark Zuckerberg per chiedere di dare piena collaborazione alle autorità. Facebook, si legge nella lettera, “è stato usato come complice nel tentativo di un governo straniero di minacciare l’autogoverno democratico degli Stati Uniti”, e pubblicare gli ads “permetterà al paese di comprendere meglio la natura e l’estensione delle interferenze straniere nella nostra democrazia”. La delusione del senatore Warner, però, non è riconducibile soltanto ai dettagli di questo caso specifico. Si tratta di un atteggiamento di chiusura, ritrosia e perfino di omertà che accomuna i grandi player del settore tech. Warner e molti altri vogliono portare Facebook a testimoniare al Congresso, in una seduta pubblica, per spezzare il clima opaco: “Una delle ragioni per cui dobbiamo portare Facebook, Twitter e altri a testimoniare pubblicamente è che questo apre un nuovo scenario. Ammettiamolo, i social media e il loro ruolo nelle campagne politiche sono nel far west”, ha detto il senatore democratico, che pure è pronto a concedere che Facebook non sapesse di essere stata usata dai troll del Cremlino.

 

Le dichiarazioni della compagnia in questo senso hanno tradito diverse ambiguità, ma il punto è che ora Mark Zuckerberg e i suoi colleghi stanno facendo di tutto per evitare di dover comparire davanti a una commissione del Congresso, un precedente che aprirebbe nuovi scenari. Il social sarebbe costretto a sottoporsi agli standard di trasparenza che predica. Una delle domande a cui la dirigenza dovrebbe rispondere è quella formulata dal giornalista Mark Halperin: “Facebook ha messo il profitto davanti al patriottismo?”. Ma ce ne sarebbero molte altre, e un pezzo bipartisan della classe politica di Washington vuole approfittare del caso degli ads russi per trascinare gli impuniti giganti della tecnologia sotto i riflettori. 

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